L’ADL delL’8 dicembre 2022

L’Avvenire dei lavoratori

8 dicembre 2022 – e-Settimanale della più antica testata della sinistra italiana

Organo della F.S.I.S., Centro socialista italiano all’estero, fondato nel 1894 / Direttore: Andrea Ermano

Redazione e amministrazione presso la Società Cooperativa Italiana – Casella 8222 – CH 8036 Zurigo

 

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EDITORIALE

 

il SAGGIO di bagnoli su

LA QUESTIONE SOCIALISTA

 

Di seguito rilanciamo ampi stralci tratti da un importante saggio di Paolo Bagnoli apparso sul mensile “La rivoluzione democratica” da lui diretto. A trent’anni dal collasso della “Prima Repubblica”, Bagnoli ripropone la “questione del socialismo italiano”. Perché solo impropriamente essa poteva ridursi alla vicenda mediatico-giudiziaria di Bettino Craxi, mentre la storia e la cultura politica del socialismo rappresentano a ben vedere la vera forza della nostra democrazia. Di qui lo stato di crisi permanente cui assistiamo? Sul di esso incombe non solo il fatto che la questione socialista resta irrisolta, quanto soprattutto l’assenza totale di consapevolezza circa il rilievo che essa riveste per il nostro Paese.

 

di Paolo Bagnoli *)

 

La crisi del socialismo si manifesta in Italia con la sua totale assenza da quando il PSI è stato travolto dal personalismo del suo segretario. Oggi il problema non si pone ripartendo dal giudizio da dare sull’esperienza di Craxi e sull’efficacia della iniziativa giudiziaria che si scatenò contro il Partito. Non perché le malversazioni non dovessero essere perseguite e punite, ma per le modalità di natura punitiva che, esulando dal giudiziario, avevano una quasi esclusiva valenza politica; per come, intorno a tale iniziativa, si venne componendo tutta un’opinio politico-mediatica tesa a rappresentare il socialismo italiano per quello che non era, finendo per identificare in Craxi addirittura l’intera storia del socialismo italiano – che ha rappresentato, pur nella varietà delle sue stagioni, la vera forza della democrazia italiana.

    Il problema del socialismo in Italia si pone gravato da una questione generale che riguarda il livello internazionale e da quella nazionale. È evidente a tutti che lo scioglimento della sinistra quale soggetto politico operato dagli eredi del PCI i quali, essendosi trovato ancora in piedi un pezzo del loro partito, potevano – e a un certo punto, con la segreteria di Massimo D’Alema nel PDS, sembrava che le cose andassero in questa direzione – rappresentare un polo ricostruttivo della sinistra dopo la fine del PSI e lo scioglimento del PCI.

    Potevano, cioè, impostare una politica in tale direzione a condizione di riconoscere l’errore del 1921. E, pure, come se l’aver perso il treno passato nel 1956 avesse determinato una situazione che aveva oggettivamente impedito al socialismo di divenire quel grande soggetto di trasformazione profonda della realtà italiana quale forza centrale del nostro sistema democratico. Prevalsero altre logiche, altri indirizzi; in Italia i post-comunisti mai accettarono una scelta chiaramente – anche nominalmente – socialista, pur facendo parte, grazie al PSI, sia dell’Internazionale Socialista che del Partito del Socialismo Europeo.

    Il risultato è stata la nascita del PD che non è riuscito a essere di sinistra – cosa impossibile peraltro se non si accettano i presupposti socialisti – né di vero centrosinistra nonostante le roboanti dichiarazioni di rappresentarsi come un partito “a vocazione maggioritaria”.

    La ragione di tutto ciò è semplice e complessa al contempo, ma considerato che il PD non è mai riuscito a essere veramente un partito e a funzionare come tale, ogni scelta si è risolta in una “corsa sul posto”, sempre più a passo populista, fino alla sconfitta che ha permesso alla destra estranea alla natura costituzionale della Repubblica di avere un governo guidato dagli eredi contemporanei del fascismo italiano.

    La fine del PSI e l’ostracismo della memoria sulla sua storia – un fenomeno non ancora passato – cui abbiamo assistito per oltre un trentennio non hanno, tuttavia, cancellato la questione socialista dallo scenario del Paese. Non tanto perché la sigla è rimasta in vitro per operazioni di natura strettamente personale (e, quindi, con un uso strumentale a fini del tutto diversi da quelli che essa avrebbe comportato), quanto soprattutto perché in vivo non hanno cessato di esistere i centri di presenza e, potremmo dire, di resistenza socialista nel Paese.

    Né sono mancati, nei decenni trascorsi, tentativi che hanno cercato sul piano organizzativo di rimettere in piedi forme di soggettualità proponentesi di portare avanti il discorso per rimettere in piedi un qualcosa che cominciasse a colmare il vuoto verificatosi.

    Parimenti dobbiamo registrare come tanti centri culturali di ispirazione socialista abbiano meritoriamente operato per tenere in vita non solo il ricordo di donne e uomini, ma il significato di una presenza politico-culturale. E, ancora, va registrato, sempre positivamente, come si siano intensificate le iniziative di natura pubblicistica con la riproposizione di testate di notevole valenza storica caratterizzanti la vita del socialismo italiano e pure si è assai cospicuamente intensificata la produzione libraria di storici e di compagni che hanno avuto funzioni dirigenziali nel PSI caratterizzando un mosaico. Anche se non pare essersi formata una rete, che sarebbe stata di grande utilità per cercare di mettere sui binari della storia presente il socialismo italiano.

    I motivi di tutto ciò sono molteplici.

    La ragione prima del perché una ricomposizione non sia avvenuta ci pare squisitamente politica, ma pure storica. Si trattava di fare seriamente i conti con una lunga vicenda, il cui bilancio, a nostro avviso, avrebbe un segno largamente positivo.

    In secondo luogo, ed è il problema sovrastante tutti gli altri, per risolvere la questione socialista, non solo a livello italiano, ciò da cui tutto parte e che motiva le ragioni del socialismo è: che il partito che lo esprime ha un senso se si propone di superare il sistema del capitalismo, di operare quella rivoluzione nella libertà che permetta alla democrazia, oggi ostaggio del mercato e del mercatismo, di liberarsi con cultura ‘libertaristica’, di affermarsi ed espandersi per l’affermazione dei diritti e della giustizia sociale.

    Solo così il socialismo ha un senso; se così non è non si vede perché si ritenga necessario un Partito socialista.

    È evidente che ogni forza politica, per essere tale e stare nella lotta politica quale soggetto attivo, abbisogna non di ragioni fideistiche o, peggio ancora, sentimentali, ma di una salda cultura politica; di una ‘ideologia’, cioè, che dal piano delle idee sappia tradursi in azione e organizzazione, elemento di rappresentanza sociale, capacità di interpretare e rappresentare un blocco sociale quale piattaforma di riferimento primario, capacità di sapere che la lotta di classe prima che socialista è un’idea liberale se si considera il liberalismo non tanto un dato che riguarda le istituzioni quanto una concezione della civiltà che discende direttamente dall’idea fondante di libertà. E che, pur dentro un quadro dominato da trasformazioni profonde e da fenomeni nuovi che investono tutto il pianeta, la lotta di classe non solo non è un concetto superato, ma esso è ancora lo strumento primario.

    Poiché quelle che una volta si definivano “classi subalterne” oggi sono alla mercé di un capitalismo finanziario mosso dalla prevalente logica dei profitti internazionalmente organizzati; dallo sfruttamento progressivo delle categorie più deboli quale metodo e sistema; insomma da un insieme intersecantesi di problemi che investono il mondo intero determinando una vera e propria crisi di civiltà.

    Tale realtà mette a rischio le democrazie che ancora resistono e sono sotto l’attacco dei nazionalismi e dei sovranismi. Il prezzo più alto lo pagano coloro che si vedono impedita la possibilità di “andare avanti” e riscattare la propria posizione.

    Un partito che si definisce socialista ha la funzione di mettersi alla testa di quest’opera di riscatto, forte di una cultura valoriale volta ad affermare una civiltà fondata sull’umanesimo; una civiltà che è a rischio di travolgimento venendo progressivamente meno gli argini della democrazia per quanto concerne i diritti e la stessa concezione della socialità che la giustifica. Perché la civiltà non ha una esclusiva valenza economica. Essa salva sé stessa se pone al centro l’uomo, la sua capacità di essere autonomo, libero di associarsi per combattere non solo per le fondamentali esigenze pratiche, ma anche spirituali. In altri termini: occorrono livelli che progressivamente si succedono, affermando e strutturalmente rappresentando la dimensione concreta della libertà.

    Il refrain stanco del “riformismo” è un’espressione di impotenza e di povertà culturale. Occorre invece innestare – con metodo liberale che equivale a democratico – gli atti capaci di portare, con prassi ‘libertaristica’, alla costruzione, nella libertà, a una società sempre più giusta, a una vita della comunità ispirata alla socialità, a una concezione del potere che appartiene a tutti e a una organizzazione economica anch’essa fondata sulla libertà.

    Non dimentichiamoci che tutte le libertà sono solidali e, quindi, non di tipo collettivistico, bensì socializzato. In quest’ottica, occorre tener fermo a ciò che deve spettare a chi intraprende o svolge lavoro salariato. E occorre tener fermo a uno Stato che garantisca in nome delle proprie ragioni la fondamentale funzione pubblica. E pare quasi un ossimoro affermarlo, in nome della sua primaria funzione di salvaguardia e di servizio ai cittadini, a fronte invece di un avanzato processo di riduzione dei cittadini a meri consumatori, senza contare le disfunzioni ataviche e le zone di confusione amministrativa proprie dello Stato italiano. Esso, paradossalmente, più che essere alleato degli italiani nella soluzione dei propri problemi si configura, e non poco, come un soggetto che si muove nella direzione opposta.

    Questa è la tematica primaria che va affrontata se si vuole veramente cercare non di far rinascere il PSI ma di dar vita a un soggetto che, rispetto alla stessa storia del PSI, sia un socialismo nuovo. In tal senso, quanto ci viene dalla lezione rosselliana è veramente ancora di stringente attualità poiché il socialismo nuovo non può che essere un socialismo liberale.

    Esso ha una configurazione ideologica diversa sia dal laburismo sia dalla socialdemocrazia. Si distingue dal laburismo, esperienza tipica del socialismo inglese, ove è il sindacato, ove sono le forze del lavoro che motivano un partito socialista. Ma si distingue anche da quanto si è venuto condensando nell’idea di socialdemocrazia, che esprime un socialismo nato dalla classe e che si risolve, a ben vedere, nella ricerca di un compromesso sociale con il capitale.

    Non è, il nostro, un giudizio negativo, perché i meriti della socialdemocrazia europea, e pensiamo all’esperienza svedese o a quella tedesca, sono alti; la conquista del welfare ha rappresentato una grande affermazione di civiltà e di coesione, ma non certo avendo come obbiettivo il superamento del sistema, bensì la sua correzione.

    Ciò non esprime poco, ma non risolve strutturalmente la grande questione di fondo. La specificità, poi, della storia italiana, a partire da come è nato il nostro Stato unitario e da quanto ne è derivato, rappresenta un terreno che richiede una diversa sostanza ‘ideologica’ dell’essenza del socialismo, fedele al presupposto che esso è, e non può che essere, turatianamente, una “rivoluzione sociale” (…). Continua la lettura sul sito > clicca qui

 

*) Paolo Bagnoli (Colle di Val d’Elsa, 1º giugno 1947) è uno storico e politico italiano. Professore ordinario di Storia delle Dottrine Politiche, dal 1987 al 1997 ha insegnato presso l’Università Bocconi di Milano e, successivamente, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena con sede in Arezzo. Vive a Firenze, dove dirige “La Rivoluzione democratica – Giornale socialista di idee e critica politica”.

       

  

SPIGOLATURE

 

LE fibrillazioni

per Elly SCHLEIN

 

di Renzo Balmelli

 

PARAMETRI. Come la premier che ama presentarsi con lo squillante “Io sono Giorgia”, pure Elly Schlein, aspirante alla guida del Pd, saluta con un caloroso “Io sono Elly”. E lo fa rivendicando il suo orgoglio di essere di sinistra-sinistra, senza arretrare di un passo. La qualcosa ha già mandato in fibrillazione la maggioranza che replica con un titolo da guerra fredda: “Altro che dem. tornano i comunisti”. Vabbè, è il solito, logoro ritornello per nascondere le proprie magagne. Il curriculum della candidata Elly Schlein (nata a Lugano, tripla cittadinanza italo-svizzera-americana, giovane ambientalista militante e bisessuale dichiarata) indubbiamente è lontano anni luce dai parametri della destra. E va bene così. Anche in casa tuttavia non avrà vita facile. Nella campagna congressuale già si schierano le cordate e non saranno all’insegna del “vogliamoci bene”. Nella traballante impalcatura della sinistra, la sua candidatura, piaccia o non piaccia segnerà l’inizio di una nuova storia stuzzicante per il futuro del Pd, comunque andrà a finire. Dopo il trauma elettorale, c’è molto da fare per risalire la china e ritrovare il ruolo di primo piano che spetta alla sinistra con tutti i suoi valori.

 

STRENNA. Con l’approssimarsi del Natale diventiamo tutti un pochino più buoni. Per la verità non proprio tutti. Chi invade un Paese sovrano e bombarda la popolazione civile ucraina con tutto quello che ha, di animo gentile di sicuro non è. Ma questa è un’altra storia, una storia di dolore. Per tornare al tema della bontà succede invece che Natalia Aspesi, nota per il suo stile mordace, faccia trovare a Giorgia Meloni sotto l’albero una strenna che non si aspettava. Nel pacco-regalo c’era un invito, quasi una esortazione, a coccolare e proteggere la premier dagli affanni della politica. Con tono quasi materno la scrittrice è come se le dicesse di stare attenta ai passi sbagliati, di proteggersi da se stessa e soprattutto dai comprimari che si è scelta. Certo, la finanziaria non passerà alla storia come un documento memorabile. La coperta è corta da qualunque parte la si tiri. Tuttavia, insinua la Aspesi, per pagelle non proprio esaltanti ci sono sempre gli esami di riparazione. Tanto più che, oltre alla titolare di Palazzo Chigi, vi è pure un Paese intero da tutelare. E dite se vi par poco.

 

SOTTERFUGIO. Ancora non si è capito se l’abolizione della “polizia morale”, termine che mette i brividi solo a pronunciarlo, sia un sotterfugio messo in atto dalle autorità di Teheran per placare le proteste, oppure il segno di un ravvedimento. Se alle dichiarazioni seguiranno i fatti è una ipotesi che solleva non pochi dubbi. Non hanno invece dubbi le donne iraniane che con la loro coraggiosa mobilitazione hanno avviato un movimento di contestazione che non accenna a scemare. Già accadde quasi mezzo secolo fa, quando le iraniane furono determinanti per porre fine alla dittatura dello Scià. Ora si replica. Adesso le discendenti di quelle impavide lottatrici per il rispetto dei diritti umani intendono continuare a battersi contro le difficili condizioni di vita imposte loro dal potere. La cavillosa questione a sfondo religioso del velo e delle norme relative all’abbigliamento femminile gode di sempre minor credito tra la popolazione. All’opposto cresce il numero dei cittadini che la giudicano non una libera scelta, bensì una misura vessatoria per coprire i veri problemi del Paese.

 

LESSICO. Sono molti a sostenere che il linguaggio politico è molto cambiato. E non a torto. La qualcosa non significa necessariamente che i concetti esposti nelle vare occasioni siano diventati più accessibili. Per il suo 1984 George Orwell aveva immaginato una cosiddetta “neolingua”. Sappiamo come andò a finire. Rischi di quel genere da noi non se ne corrono più. Nel vocabolario hanno fatto però la loro apparizione verbi e sostantivi inconsueti che vanno da “cubare” al greco “meraki”, entrati nel gergo del nuovo esecutivo. Intendendosi per “cubare” qualcosa che più o meno funziona e per “meraki” un impegno da compiere con tutta la passione e con tutta l’anima. Completa la panoramica l’acronimo “POS” che deriva dall’inglese Point Of Sale e significa letteralmente “punto di vendita”, chiamando in causa i pagamenti con carta di credito, ultimamente al centro di vivaci polemiche. La lingua cambia nel tempo, il lessico si evolve e si adatta all’ambiente. Resta da stabilire come e con quali ricadute sulla società umana.

   

               

economia

 

La sfida africana

alle agenzie di rating

 

L’Africa ha una sua agenzia di rating, la Sovereign Africa Ratings (Sar). È una novità importante nel panorama finanziario del continente africano, e non solo.

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all’economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

La Sar è nata in Sud Africa per iniziativa di un gruppo di imprenditori locali con l’intento di contrastare l’attività speculativa e la dipendenza dalle tre agenzie di rating americane.

    Il modello di rating del credito di Sar comprende una serie di variabili classiche, quali alcuni aspetti fiscali, economici, monetari, ambientali e di governance, i cambiamenti climatici e la crescita del pil. L’elemento innovativo sta nel fatto che si attribuisce un peso rilevante alla ricchezza mineraria del territorio come indicatore di performance. Quindi, non solo le fonti energetiche ma anche le materi prime nascoste nelle viscere del continente: oro, diamanti, cobalto, rame, zinco, cobalto e le tante cosiddette terre rare.

    Finora i Paesi africani sono stati vittime dei voti dati dall’oligopolio formato da Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch, che hanno il controllo del 95% del mercato del rating mondiale. Le “tre sorelle” sono delle imprese private il cui capitale azionario è controllato da grandi fondi d’investimento.

    Nel 2022 dette agenzie avevano stilato dei rating di solvibilità molto negativi nei confronti dei governi, delle obbligazioni di Stato, dei titoli pubblici e privati africani. I loro giudizi si sono basati su previsioni insufficienti e molto superficiali. I governi, a cominciare da quello del Sud Africa, hanno lamentato la politica invasiva delle agenzie statunitensi.

    Si ricordi che i declassamenti portano all’isolamento finanziario con un impatto devastante sulle economie africane. È, infatti, noto che un rating basso comporta il pagamento di un tasso d’interesse maggiore per ottenere dei crediti o per piazzare dei titoli sui mercati. Indebolisce anche l’offerta di capitali da parte degli investitori stranieri. Per i governi, questo implica scelte spesso impopolari come lo spostamento di fondi di bilancio dalle spese sociali verso il servizio sul debito pubblico.

    Di solito i declassamenti accrescono l’esosità degli speculatori e delle multinazionali delle materie prime. Ciò significa povertà, instabilità sociale e sottosviluppo. 

    Il rating creditizio di S&P per il Sud Africa è di BB- con outlook positivo. BB- equivale a junk, spazzatura. Di conseguenza, le obbligazioni sono considerate titoli speculativi. Le banche centrali, come la Bce, non accettano in garanzia titoli con tale voto. Le assicurazioni e i fondi pensione non possono acquistarli e sono tenuti a disfarsi di quelli già in possesso.

    Invece, la Sar ha dato al Sud Africa il rating BBB (investment grade, degno di investimento), lo stesso che S&P concede all’Italia.

    David Mosaka, chief rating officer dell’agenzia Sar, ritiene che l’economia del Sud Africa stia crescendo a un tasso dell’1,9% quest’anno e dell’1,4% nel 2023, il che certamente non favorisce l’occupazione e nuove entrate fiscali. Egli ritiene, però, che un approccio valutativo diverso rispetto al passato possa frenare le spinte speculative. Man mano che l’agenzia crescerà sui mercati internazionali, essa potrà produrre valutazioni per i Paesi africani al fine di contrastare il deprezzamento delle commodity e delle economie nazionali.

    Lo scorso 15 maggio, anche Macky Sall, capo di Stato senegalese e attuale presidente dell’Unione Africana, aveva auspicato “La creazione di un’agenzia panafricana di rating finanziario”. Sall aveva affermato che il rating delle agenzie internazionali è “talvolta molto arbitrario”. Esse esagererebbero il rischio d’investimento in Africa, aumentando così il costo del credito. Secondo il presidente senegalese, almeno il 20% dei criteri di valutazione per i Paesi africani sarebbero “fattori culturali o linguistici piuttosto soggettivi, estranei ai parametri che misurano la stabilità di un’economia”.

    L’iniziativa del Sud Africa si colloca all’interno dei programmi dei Brics, di cui il Paese fa parte. Tra le loro iniziative vi è proprio la creazione di un’agenzia di rating. È anche una lezione d’indipendenza e d’intraprendenza rispetto all’Unione europea che, dopo la grande crisi del 2008 in cui le “tre sorelle” ebbero un ruolo centrale e nefasto, aveva speso tantissime parole in merito alla creazione di un’agenzia di rating europea. Parole che sono rimaste solo sulla carta. Se ne ignora il perché.

            

     

L’Avvenire dei lavoratori – Voci su Wikipedia :

(ADL in italiano) https://it.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_lavoratori

(ADL in inglese) https://en.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_Lavoratori

(ADL in spagnolo) https://es.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_Lavoratori

(Coopi in italiano) http://it.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo

(Coopi in inglese) http://en.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo

(Coopi in tedesco) http://de.wikipedia.org/wiki/Cooperativa_italiana

 

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da >>> TERZO GIORNALE *)

https://www.terzogiornale.it/

 

C’era una volta la Brexit

 

I piccolissimi passi di Rishi Sunak

 

di Agostino Petrillo

 

Col passare del tempo le cose assumono a volte una fisionomia più chiara. È il caso della Brexit e delle sue conseguenze. A ormai sei anni di distanza, è evidente come il Regno Unito abbia pagato un prezzo molto alto in termini economici, politici e territoriali per la sua scelta di staccarsi dall’Unione europea. E tanto più lo si può affermare oggi, nel nuovo contesto internazionale che si va profilando dopo la guerra e la pandemia, in cui pare proprio che l’alternativa che si proponeva, subito dopo la fuoriuscita, tra una vagheggiata global Britain e una ridimensionata little England, si stia risolvendo a favore di una piccola, anzi piccolissima Inghilterra.

    D’altro canto, risulta evidente agli osservatori come la Brexit si stia traducendo in un disastro economico e sociale. Michael Saunders, membro esterno del comitato di controllo sulla Banca d’Inghilterra, ha dichiarato un paio di settimane fa, in una intervista a Bloomberg Tv, che “la Brexit ha danneggiato in maniera permanente l’economia britannica nel suo complesso, riducendone il potenziale ed erodendo gli investimenti”; e ha aggiunto: “Se non ci fosse stata, non saremmo qui a parlare di nuove tasse e di austerity”. Quello che gli ultimi anni hanno dunque lasciato in eredità è una debolissima crescita economica, che non tiene il passo con molti Paesi europei. Rishi Sunak, e il cancelliere dello Scacchiere Jeremy Hunt, hanno infatti già dovuto annunciare nuove imposte e tagli delle spese. E in effetti Liz Truss, nel suo breve regno, ha messo in luce il male, quello della ridotta crescita, pur proponendo poi un rimedio paradossale, con la trussonomics, che le è valsa una rapida defenestrazione.

    I prezzi dei generi alimentari salgono in maniera abnorme, l’inflazione galoppa, il livello di vita precipita, e da tempo gli economisti denunciano che ci si sta avviando a tutta velocità verso la recessione. Tra le zone più colpite dalla crisi, proprio quelle regioni arretrate che a suo tempo votarono massicciamente per l’allontanamento dalla dimensione europea a favore di una ritrovata vocazione “insulare”. Quasi tre quarti delle importazioni del Regno Unito provengono dall’Unione europea, ed è facile calcolare – nonostante l’impatto sia stato attenuato dagli accordi di Natale del 2020, entrati in vigore lo scorso anno – quanto le barriere doganali incidano comunque sui prezzi e su una organizzazione dei traffici commerciali che da decenni ruota intorno al mercato europeo. L’opinione pubblica comincia a rendersene conto: secondo un recente sondaggio pubblicato dallo “Observer” il 66% dell’elettorato è ormai convinto che la Brexit sia “andata male”, mentre solo un 22% è ancora convinto della scelta. Questo il contesto in cui Rishi Sunak pare muovere i primi timidi passi di riavvicinamento all’Europa, sebbene il primo ministro britannico abbia più volte ripetuto di essere ancora convinto della validità della Brexit, e abbia sostenuto pubblicamente di non avere intenzione di riaccostarsi alla legislazione europea in fatto di circolazione delle merci, attestandosi forse piuttosto su una posizione di partnership esterna, “alla svizzera”.

    Già questo piccolissimo passo in direzione “svizzera” è stato oggetto di violenti attacchi da parte dei Brexiter duri e puri, costringendo Sunak a una capriola e a una parziale smentita. Anche se, in realtà, nel discorso tenuto successivamente a fine novembre, a Guildhall, nella City di Londra, è stata sottolineata l’importanza di rivitalizzare la relazione con l’Europa, e di approfondire quella “pivotale” con l’indo-pacifico. Ha detto Sunak: “Paesi come la Russia e la Cina pianificano a lungo termine e il Regno Unito dovrebbe procedere nello stesso modo”. Tra le righe, è possibile leggere anche l’intenzione di muoversi senza preclusioni di sorta: “La libertà e l’apertura sono sempre state le forze più potenti per il progresso. Ma non sono mai state raggiunte stando fermi. Sotto la mia guida non sceglieremo lo status quo. Faremo le cose in modo diverso” – ha aggiunto, ribadendo che il Regno Unito guarderà a tutte le opportunità di crescita che si presenteranno. Secondo quanto riporta il “Sunday Times”, il cancelliere dello Scacchiere Jeremy Hunt avrebbe dichiarato, in privato, che il Regno Unito dovrebbe cercare un accordo commerciale più stretto con l’Unione europea, salvo poi in parte smentire le dichiarazioni dopo una salva di critiche partita dai Tories. (continua sul sito)

 

*) Terzo Giornale – La Fondazione per la critica sociale e un gruppo di amici giornalisti hanno aperto questo sito con aggiornamenti quotidiani (dal lunedì al venerdì) per fornire non un “primo” giornale su cui leggere le notizie, non un “secondo”, come si usa definire un organo di commenti e approfondimenti, ma un giornale “terzo” che intende offrire un orientamento improntato a una rigorosa selezione dei temi e degli argomenti, già “tagliata” in partenza nel senso di un socialismo ecologista. >>> vai al sito

       

              

LAVORO E DIRITTI

a cura di www.collettiva.it

 

Cgil: NO alla manovra. scioperi confermati

 

di Emanuele Di Nicola

 

Scioperi confermati – Il segretario generale Landini dopo l’incontro col governo: “Indisponibili a modificare la legge di bilancio. Niente sui salari, contro la precarietà e l’evasione. Così si impoverisce il mondo del lavoro”. Perciò “abbiamo confermato il nostro giudizio negativo sulla manovra”. Così il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, al termine dell’incontro tra governo e sindacati sulla legge di bilancio. Le critiche in particolare sono su sei punti: “Potere d’acquisto, salari che non aumentano, pressione fiscale sui salari stessi, perché 85 lavoratori su 100 nel nostro Paese vivono con meno di 35.000 euro lordi l’anno. Nulla è cambiato rispetto a prima”. Poi, ha proseguito il leader di Corso d’Italia, “c’è il tema della precarietà: togliere i voucher non è sufficiente, bisogna cambiare il mercato e cancellare tante forme precarie assurde che ancora ci sono. Serve una vera lotta all’evasione fiscale, la logica della flat tax è sbagliata e aumenta le differenze, penalizza i lavoratori. E bisogna intervenire su tutto ciò che non viene fatto nella lotta all’evasione”.

 

Profonde distanze – “Abbiamo chiesto di cambiare sulla sanità pubblica, scuola e servizi – ha aggiunto -; occorre aumentare le risorse e fare assunzioni. Inoltre mancano politiche industriali adeguate per fare un piano energetico degno di questo nome”. La linea dell’esecutivo insomma non soddisfa: “Le risposte hanno confermato profonde distanze su fisco e precarietà, così come sulla tutela del potere d’acquisto. Alle nostre richieste non ci sono state risposte, hanno detto solo che devono vedere in base alle risorse disponibili”.

 

La mobilitazione continua – Il sindacato continua dunque la mobilitazione: “È necessario continuare la mobilitazione in campo per chiedere ampie modifiche ad una manovra che rischia di indebolire il mondo del lavoro. La mobilitazione è in atto a livello territoriale fino al 16 dicembre, insieme alla Uil, e viene confermata – ha ricordato il segretario -. Sono scioperi generali regionali, territorio per territorio, perché ora è il momento di coinvolgere i lavoratori ma anche gli enti locali, perché così i Comuni e le Regioni dovranno tagliare i servizi o aumentare le tasse. Per colpa di una manovra sbagliata”.

    Un passaggio quindi sulle pensioni. “Abbiamo avuto una disponibilità alla rivalutazione molto generica. Quota 103 è il ritorno alla Fornero, e su questo non c’è stata alcuna disponibilità”. Fare le riforme indispensabili, “significa cercare una mediazione con tutte le parti sociali: bisogna cambiare il fisco e ridurre la pressione fiscale su lavoratori dipendenti e pensionati, soprattutto davanti al caro bollette, ed è assurdo che su questo il governo non sia disponibile. Siamo davanti a un provvedimento che addirittura peggiora le misure di Draghi, dicono che non ci sono risorse ma abbiamo già detto che vanno prese nelle decine di milioni di extra profitti”.

 

Affrontare i bisogni veri – Interpellato sulle minacce ricevute dalla premier Meloni, infine Landini ha risposto: “Noi tutti nell’incontro abbiamo condannato pubblicamente questi episodi, esprimendo piena solidarietà alla presidente del Consiglio.  Detto ciò, il governo ha uno strumento per evitare che la rabbia aumenti: rispondere ai bisogni delle persone. Che governino. Anziché portare il contante a 5.000 euro, è meglio se lo mettono in tasca a chi non ce l’ha. Se invece continuano a favorire gli evasori, a fare la flat tax, a colpire i redditi più bassi, allora la rabbia monta, scende il consenso del governo e noi andremo in piazza sempre di più”, ha concluso.

       

           

Da Avanti! online

www.avantionline.it/

 

Da Bruxelles una proposta

per genitori dello stesso sesso

 

ZAN: “una PROPOSTA STORICA DELLA

COMMISSIONE UE, L’ITALIA NON RESTI INDIETRO”

 

I genitori dello stesso sesso e i loro figli dovrebbero essere riconosciuti come una famiglia in tutti gli Stati membri dell’Unione europea. E’ uno dei principi al centro della proposta di regolamento presentata oggi dalla Commissione Ue per armonizzare le norme di diritto internazionale privato sulla genitorialità.  “La proposta è incentrata sull’interesse superiore e sui diritti del bambino”, spiega Bruxelles, evidenziando che “la genitorialità stabilita in uno Stato membro dovrebbe essere riconosciuta in tutti gli altri Stati membri, senza alcuna procedura speciale”, incluso il riconoscimento per i “genitori dello stesso sesso”.

    “La proposta della Commissione UE di armonizzare le norme di diritto internazionale sulla genitorialità è storica. Finalmente la Commissione Europea ha espresso la chiara volontà politica di tutelare i diritti di tutti i minori in tutta l’Unione, compresi quelli dei figli di coppie dello stesso sesso. L’Europa della democrazia e dei diritti continua il suo cammino, e l’Italia non può restare indietro. Il ritardo del nostro Paese rispetto ai grandi partner europei è enorme e drammatico. Il Governo segua le indicazioni della Commissione e il Parlamento non continui a negare la realtà e inizi in tempi brevi la discussione di una legge sul matrimonio egualitario e sulla piena genitorialità per tutte le famiglie. Parliamo del riconoscimento di diritti umani e continuare a negarli significa non fare l’interesse di tantissimi bambini.”

    Così Alessandro Zan su Twitter, deputato PD, sulla proposta della Commissione UE di riconoscere la genitorialità anche a coppie dello stesso sesso in tutti gli stati membri.

       

       

Su Radio Radicale

https://www.radioradicale.it/

 

Poteri nuovi

 

Presentazione del volume di Maria Rosaria Ferrarese “Poteri nuovi.

Privati, penetranti, opachi” – Il Mulino, Bologna 2022. > clicca qui

 

Con l’autrice Maria Rosaria Ferrarese (professore ordinario di Filosofia del Diritto all’Università di Cagliari) discutono Giuliano Amato (presidente emerito della Corte costituzionale), Luisa Torchia (professore di Diritto Amministrativo all’Università Roma Tre), Maurizio Franzini (professore ordinario di Politica Economica all’Università La Sapienza di Roma).

 

Dibattito organizzato a Roma dall’Istituto della Enciclopedia

Italiana Giovanni Treccani mercoledì 23 novembre 2022.

       

  

L’Avvenire dei lavoratori – Voci su Wikipedia :

(ADL in italiano) https://it.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_lavoratori

(ADL in inglese) https://en.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_Lavoratori

(ADL in spagnolo) https://es.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_Lavoratori

(Coopi in italiano) http://it.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo

(Coopi in inglese) http://en.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo

(Coopi in tedesco) http://de.wikipedia.org/wiki/Cooperativa_italiana

 

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Cultura

 

Pasolini

nel ricordo di dacia Maraini

 

A cent’anni dalla nascita e a quasi cinquanta dalla morte del Corsaro, la sua grande alleata di sempre, Dacia Maraini, ricorda Pasolini, straordinario protagonista della cultura europea, la sua intelligenza acutissima, la sua lucidità visionaria. Lo ricorda nel volume Caro Pier Paolo, vero successo di pubblico e di critica disponibile ora anche a nord delle Alpi in versione tedesca.

 

di Andrea Ermano

 

Questa settimana, nella “Sala blu” del Volkshaus zurighese, ho potuto ascoltare la Grande Dame della letteratura italiana, alla quale qualche tempo fa apparve in sogno un vecchio amico scomparso. Stava in piedi di fronte a lei Pier Paolo Pasolini (1922-1975): pietra dello scandalo, sorvegliato speciale della polizia morale italiana, poeta calciatore drammaturgo omosessuale scrittore assassinato in circostanze non chiarite. Lui nella realtà fu però tutt’altra persona rispetto a quell’immagine pubblica. Perché, nel ricordo di Dacia Maraini, Pier Paolo era stato ed è sempre rimasto un uomo mite.

    Con quest’ultima fatica Dacia Maraini intende restituirci la dolcezza di quel regazzino per ciò che lui stesso era e voleva essere.

 

Pier Paolo Pasolini e Dacia Maraini ai tempi

de Il fiore delle Mille e una notte (1974)

 

Non, dunque, del Pasolini Corsaro si tratta in “Caro Pier Paolo”, ma di un uomo buono cui era accaduto di “disinnamorarsi” del padre divenuto violento e deludente, per subito “innamorarsi” della madre maestra. A lei dedica la celebre “Supplica”:

 

È difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

    Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

    Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:

è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

    Sei insostituibile. Per questo è dannata

alla solitudine la vita che mi hai data.

    E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame

d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

    Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu

sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

    ho passato l’infanzia schiavo di questo senso

alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

    Era l’unico modo per sentire la vita,

l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

    Sopravviviamo: ed è la confusione

di una vita rinata fuori dalla ragione.

    Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.

Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile… (ascolta l’Autore)

 

La madre di Pasolini, Susanna Maria Colussi, scrittrice ella stessa, fu una donna tragica. Pasolini la volle in veste di Madonna straziata per il Figlio ne Il vangelo secondo Matteo: e fu un’interpretazione straordinariamente intensa (vedi la Passione dal minutaggio 2:03:00).

    Susanna aveva partorito due figli, Pier Paolo e Guido. Entrambi assassinati. Il partigiano ventenne Guido “Ermes” Pasolini (1925-1945) cadde nell’eccidio di Porzûs. Fu un massacro “per mano fraterna nemica”, iniziato undici settimane prima della Liberazione. Durò dal 7 al 18 febbraio 1945, quando nell’Alto Friuli diciassette volontari della libertà aderenti alle Brigate Osoppo vennero fatti oggetto di una implacabile caccia all’uomo da parte di un gruppo di “gappisti” appartenenti al PCI.

    Detto tra noi friulani, mio padre, all’epoca diciannovenne “osovano”, mi raccontò che in quelle settimane di fine inverno 1945 si doveva provvedere a un rifornimento di viveri e medicinali anche per il gruppo stazionato a Porzûs. Se così si fosse provveduto in quell’intorno di giorni, se mio padre si fosse trovato lì, io non sarei qui. E tutta questa infinita concatenazione di coincidenze che ti fanno essere o non essere, a me potrebbe apparire vertiginosa, ma anche ovvia.

 

Torniamo a “Porzûs”. Ho avuto la ventura di passare un mezzo pomeriggio di mezzo secolo fa con Giovanni “Vanni” Padoan, che guidò il commando della Divisione Garibaldi “Natisone” in quel massacro. Padoan, nel secondo Dopoguerra, fu condannato a trent’anni di reclusione, riparò in Cecoslovacchia e rientrò in Italia dopo essere stato graziato. L’ex comandante gappista mi disse che io non potevo capire: «Tu sei un giovane studente di sinistra nell’epoca del benessere, mentre noi eravamo come lupi, come un branco di lupi».

    Negli anni Settanta, ai tempi di quei colloqui, mi capitò di parlarne con mio zio materno, Orlando “Ivan” Abate, estraneo all’eccidio di Porzûs, ma anch’egli commissario nella stessa Divisione Garibaldi “Natisone” operante tra Italia e Slovenia. Dopo la guerra si trasferì a Roma ed era ormai un pittore affermato. Ci trovavamo nel suo atelier quando me lo confermò: «Sì, eravamo come lupi», disse.

    In realtà, c’era una direttiva ufficiale del PCI secondo cui tutti i partigiani operanti nell’Italia nord-orientale dovevano porsi alle dipendenze del maresciallo Tito. E chi non avesse appoggiato gli jugoslavi sarebbe stato considerato e trattato da nemico. Dunque, anche i titoisti, soprattutto loro, erano “come lupi”.

    Non tutti, però, possedevano lo stesso istinto ferino. Un leader storico del PCI Mario Lizzero (“Andrea”) fu nettamente contrario alla strage di Porzûs: «È una decisione grave, un grave errore, perché è evidente che gli sloveni hanno cambiato la loro posizione sulla questione del confine e noi non dovremmo accettare la richiesta del IX Corpus».

    Con il che si può finalmente comprendere per quali ragioni geopolitiche, in quell’inizio del 1945, i partigiani anticomunisti stessero accampati a Porzûs, presidiando il confine tra Italia e Slovenia: la guerra contro il comune nemico nazifascista non era ancora conclusa, ma già iniziava il contenzioso territoriale tra il CLN italiano e il IX Corpus jugoslavo. Allo stesso modo si possono intendere gli scopi politico-militari a causa dei quali i partigiani comunisti procedettero all’eliminazione minuziosa e implacabile degli osovani.

    Solo molti anni dopo, nel 2001, Vanni Padoan definirà Porzûs un «crimine di guerra che esclude ogni giustificazione». Chiederà formalmente “scusa e perdono” agli eredi delle vittime del barbaro eccidio, puntualizzando però che la sua dichiarazione «l’avrebbe dovuta fare il Comando Raggruppamento divisioni “Garibaldi-Friuli” quando era in corso il processo». E aggiungerà, Vanni, con osservazione amaramente intrisa di realismo: «Purtroppo, la situazione politica da guerra fredda non lo rese possibile» (v. Rep. 18.3.2005).

    E fu, dunque, in quel contesto di circostanze e di accadimenti ormai lontani che Guido “Ermes” Pasolini dovette morire. E fu, direi, con la mente rivolta al giovane fratello assassinato “per mano fraterna nemica” che Pier Paolo affidò alla madre il ruolo di Maria piangente ai piedi della croce.

 

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire

Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

 

Questa “Supplica alla madre” con tanto di figura retorica autocontraddittoria chiude l’intera poesia all’insegna di un “aprile” che con quei puntini di sospensione finale allegorizza l’apertura a una speranza, forse, ma rassegnata.

    Dacia Maraini sottolinea la speciale solitudine contro cui Pier Paolo impatta avventurandosi fino alla soglia tabù dell’amore – l’amore di corpi – con una donna. Questo non equivale ad asserire che PPP non potesse amare una donna. Amò Maria Callas e ne fu riamato. Ma non avrebbe potuto “violarla”. Perché con irrimediabile intensità lui sentiva che avrebbe “violato” la sua stessa madre.

    Dopodiché la madre, in qualche modo, prenderà su di sé, e contro di sé, la Supplica a non voler morire. E così, alla scomparsa del figlio Guido dovrà sopravvivere. E di nuovo dovrà “non voler morire”, straziandosi per Pier Paolo. Anche lui ucciso.

    Fu ucciso anche lui “per mano fraterna nemica”? Nessuno in coscienza potrebbe affermarlo, e men che meno chi, quella notte d’inizio novembre del 1975, lo assassinò.

    Per il fatto di sangue viene processato un certo Pino Pelosi, all’epoca diciasettenne, che si autoaccusa quella stessa notte tra il 1° e il 2 novembre del 1975, sostenendo di avere agito in completa solitudine.

    Al processo del 1976 il giudice Carlo Alfredo Moro (fratello di Aldo Moro) respinge la perizia di Aldo Semerari, un criminologo antisemita, legato agli ambienti della Banda della Magliana e dell’estrema destra italiana (il quale sei anni dopo verrà rapito, ucciso e rinvenuto in condizioni sulle quali stendiamo un velo di umana pietà). Pelosi è condannato per «omicidio volontario in concorso con ignoti». In concorso con ignoti… Il giudice Moro sottolinea in quella sentenza come «dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all’Idroscalo il Pelosi non era solo».

    Perché nella lunga teoria di versioni, contraddizioni, ritrattazioni, narrazioni e ammissioni finali, Pelosi prima di morire (nel 2017) lo ha detto chiaro e tondo che la sua “confessione” era avvenuta per paura di subire sanguinose ritorsioni su di sé e sui propri cari. Sicché, in conclusione: sulla scena del delitto c’erano più persone. Probabilmente tre.

    Questa la tesi di fondo, esposta da Dacia Maraini nella conferenza zurighese di lunedì scorso, analoga in ciò a tutte le altre presentazioni del libro che hanno avuto luogo durante l’anno in varie città occidentali e anche in rete (vedi su YouTube). Dacia pensò subito che quella storia, la storia di quel delitto, non poteva essersi svolta come da versione ufficiale. E in tutti questi decenni non è certo rimasta sola nell’assunto. Oltre al giudice Moro, giunsero alle medesime conclusioni molti autorevoli intellettuali, storici, scrittori e giornalisti (sebbene non manchino tesi e teorie su posizioni diverse).

 

Dacia Maraini e il Dr. Alessandro Bosco (Società Dante

Alighieri Zurigo) all’incontro del 5/12/2022, promosso dalla

Cattedra di Italianistica della Prof. Tatiana Crivelli insieme

all’Istituto Italiano di Cultura diretto dal Dr. Francesco Ziosi

 

Dal “Dossier delitto Pasolini” (Kaos edizioni, 2008) addirittura si apprende che non pochi erano stati gli abitanti delle costruzioni abusive esistenti in via dell’Idroscalo, dove avvenne l’omicidio, a confidare alla stampa di aver udito urla e rumori provenienti da ben più di due persone. E si sentirono le disperate invocazioni di soccorso da parte di Pasolini. E tutto porta in effetti a concludere che quella notte un gruppetto di bastonatori abbia ammazzato di botte il grande intellettuale. Eccoci alla storia sbagliata di cui cantava De André:

 

È una storia vestita di nero

è una storia da “basso impero”

è una storia mica male insabbiata

è una storia sbagliata.

 

Nel sogno di Dacia Maraini da cui siamo partiti lui stava in piedi di fronte a lei. Che però, nonostante la situazione onirica, rimaneva ben consapevole del fatto che il grande poeta e amico era scomparso tant’anni or sono. E infatti lui esordiva concedendo qualcosa tipo: lo so anch’io che ero morto. Ma adesso…

    Lei fa per toccarlo e l’ombra si dilegua. Resta soltanto un gilet color magenta, che si adagia a terra. Tenta di recuperare almeno quello. Però anche quello scompare. E allora non rimane che svegliarsi e iniziare a scrivere: “Caro Pier Paolo…”.

 

Dacia Maraini, Caro Pier Paolo, Neri Pozza,

Milano/Vicenza 2022, pagine 240.

       

                    

LETTERA DA MADRID

 

XVI Edizione dei Premi all’Italianità

 

Si è tenuta venerdì 2 dicembre l’edizione 2022 del nostro Premio, dedicata al tema “Eccellenza e solidarietà”, organizzata dal Comites di Madrid. Trecento gli invitati presenti e centinaia di persone che hanno seguito la manifestazione in diretta Facebook. Nella splendida cornice della sala delle colonne del Círculo de Bellas Artes di Madrid si è svolta la XVI Edizione dei “Premi all’Italianità 2022”, consegnati ai connazionali che più si sono distinti quest’anno nel valorizzare l’eccellenza italiana nelle categorie Gastronomia, Sport, Solidarietà, Scienza, Cultura, Associativismo, Made in Italy, Tecnologia, Spettacolo, Medicina, Finanza e PMI.

    I riconoscimenti dell’edizione 2022 sono stati assegnati a Maurizio Di Ubaldo, primo avvocato italiano a Madrid, fondatore e presidente di molteplici entità associative ed aziende (PMI). Andrea Tumbarello per l’innovazione della cucina e la promozione dei prodotti tipici italiani in Spagna (Gastronomia); Andrea Chevallard, presidente del Rugby Club Orsi Italiani di Madrid, per aver creato un gruppo di ragazzi che, attraverso lo sport, vivono i valori della nostra cultura italiana (Sport); Ivan Tabasco per il suo impegno presso l’associazione no profit Emergency Home (Solidarietà); Matteo Miluzio per la divulgazione scientifica (Scienza); Giovanni Caprara per la diffusione della cultura italiana in Andalusia (Cultura); Alessia Mitoli per il grande impulso e le costanti attività che promuove l’Associazione Italiani a Siviglia (Associazionismo); Luca di Carlo per aver rappresentato la Marca Italia attraverso il settore automobilistico (Made in Italy); Stefano Antonino Bongiorno avvocato che ha rivoluzionato la forma di intendere i servizi legali (Tecnologia); Francesco Ercolani per il suo talento e il suo lavoro di diffusione della musica attraverso il coro Italiano di Madrid (Spettacolo); Francesca Teodonno per offrire ai suoi pazienti ed alla comunità Italiana il miglior servizio e aiuto possibile (Medicina) e a Gianluca Festino per aver insegnato, aiutato e consigliato come gestire i propri risparmi ed essere sempre stato vicino alle necessità dell’emigrazione (Finanza).

    Quest’anno, inoltre, il Consiglio del Comites di Madrid ha assegnato quattro riconoscimenti speciali all’Italianità: a Pietro Mariani, profondo conoscitore delle leggi e regolamenti, critico analista dell’emigrazione, sempre pronto ad aiutare e consigliare il connazionale necessitato; a Gabriele Paolo per lo sforzo profuso nei suoi studi sull’emigrazione; a Euprepio Padula per il suo contributo come riferimento italiano della comunità LGBT e infine a Domenico Maggi, imprenditore che ha saputo costruire rapporti solidi con la Spagna, aiutando tanti italiani, dandogli lavoro e consigli utili.

 

Il Comites di Madrid: Andrea Lazzari (Presidente), Michele Testoni (Vice Presidente), Albani Sergio (Consigliere Esecutivo), Gabriella Lanzilli (Segretaria), Luisa Cardona (Tesoriera), Adriana Bonezzi, Alvaro Cicco, Emanuela Cozzoni, Fernando Lomaglio, Franco Savoia, Giovanni Erasmo Provenza, Romina De Simone (Consigliere/i).

 

         

L’Avvenire dei lavoratori

EDITRICE SOCIALISTA FONDATA NEL 1897

 

L’Avvenire dei lavoratori è parte della Società Cooperativa Italiana Zurigo, storico istituto che opera in emigra­zione senza fini di lucro e che nel triennio 1941-1944 fu sede del “Centro estero socialista”. Fondato nel 1897 dalla federazione estera del Partito Socialista Italiano e dall’Unione Sindacale Svizzera come organo di stampa per le nascenti organizzazioni operaie all’estero, L’ADL ha preso parte attiva al movimento pacifista durante la Prima guerra mon­diale; durante il ventennio fascista ha ospitato in co-edizione l’Avanti! garantendo la stampa e la distribuzione dei materiali elaborati dal Centro estero socialista in opposizione alla dittatura e a sostegno della Resistenza. Nel secondo Dopoguerra L’ADL ha iniziato una nuova, lunga battaglia per l’integrazione dei mi­gran­ti, contro la xenofobia e per la dignità della persona umana. Dal 1996, in controtendenza rispetto all’eclissi della sinistra italiana, diamo il nostro contributo alla salvaguardia di un patrimonio ideale che appar­tiene a tutti.

 

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