L’ADL del 13 luglio 2023

L’Avvenire dei lavoratori

EDIZIONE STRAORDINARIA 13 LUGLIO 2023

e-Settimanale della più antica testata della sinistra italiana

Organo della F.S.I.S., Centro socialista italiano all’estero, fondato nel 1894 / Direttore: Andrea Ermano

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PAUSA estiva

ma anche invernale

 

Durante queste settimane stiamo procedendo negli aggior­na­menti tecnici ne­ces­sari a mantenere un soddisfacente standard di qualità.

 

Giovedì 31 agosto 2023 la Newsletter dell’ADL

riprenderà le sue regolari trasmissioni.

 

A tutte/i un buon proseguimento d’estate (nell’emisfero nord)

Ma anche una buona fuoriuscita dall’inverno (nell’emisfero sud)

La red dell’ADL

        

 

IPSE DIXIT

 

Che la terra ti sia lieve – «La pesantezza più pesante ci piega, ci schiaccia, ci preme a terra. Quindi, la pesantezza più pesante è insieme un’immagine del più intenso adempiersi della vita. Più pesante è la pesantezza, più la nostra vita è prossima alla terra, più è reale e vera.» – Milan Kundera

 

Che la terra ti sia finalmente lieve – «Io non ho bisogno di denaro. / Ho bisogno di sentimenti, / di parole, di parole scelte sapientemente, / di fiori detti pensieri,

di rose dette presenze, / di sogni che abitino gli alberi, / di canzoni che facciano danzare le statue, / di stelle che mormorino all’ orecchio degli amanti. / Ho bisogno di poesia, / questa magia che brucia la pesantezza delle parole, / che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.» – Alda Merini

 

      

  

EDITORIALE

da La Rivoluzione Democratica

 

PROVIAMO A RAGIONARE

SULLA GUERRA E LA PACE

 

La condanna di Putin e gli aiuti all’Ucraina sono

fuori discussione. E, tuttavia…

 

di Paolo Bagnoli *)

 

La fine della guerra fredda aveva aperto alla speranza che il concetto stesso di guerra non tanto si fosse allontanato da noi perché ciò è impossibile, ma che il dato della pace fosse prevalente; che, caduto il comunismo, si fosse aperta una nuova stagione nella quale il rischio di conflitti, freddi o caldi che fossero, venisse relegato nel remoto di un passato oramai saldamente alle spalle. I fatti, con l’aggressione russa all’Ucraina, hanno smentito tutto e l’Europa, che segna i confini della Russia, si trova a fare i conti con una situazione nella quale il doveroso appoggio alla resistenza dell’Ucraina rischia di tramutarsi in un coinvolgimento bellico contro la Russia.

    Perché, ci domandiamo, l’Occidente, che dalla guerra fredda è uscito vincitore, non si è applicato a costruire la pace?

    Nessuno certo avrebbe potuto immaginare che la situazione sarebbe arrivata a questo punto. Ma è possibile che, dati i tanti centri strategici esistenti, nessuno abbia mai posto attenzione alla persistenza in Russia di un sentimento da Paese imperiale? Nessuno mai ha sospettato che quel sentimento in Russia avrebbe potuto, in qualche modo, ripresentarsi, come ai tempi dello zarismo prima e del comunismo poi?

    In ciò, a nostro avviso, risiedono le ragioni storico-culturali del putinismo: del non arrendersi a essere una potenza depotenziata. È un qualcosa che va ben al di là dei regimi e dei loro destini essendo, questo, un dato culturale genetico della Russia la quale, per esprimersi, deve naturalmente contrapporsi all’Europa e ai valori occidentali che essa rappresenta.

 

 

La fine del comunismo non aveva segnato la “fine della storia”, ma aperto una nuova storia che tornava sui suoi passi incontrando la vecchia storia. Ritenere che la storia fosse finita è’ stato un errore politico-culturale dagli effetti devastanti; la Russia non ha mancato di esprimere il proprio spirito nazionale unitamente alla concezione orientale del potere che da sempre la caratterizza.

    La fine del comunismo non ha generato l’avvento della democrazia. Anzi, ha rafforzato Mosca nell’alzare la testa a fronte di un’Europa “alleato subalterno”, sostanzialmente impotente, degli Stati Uniti.

    L’Occidente, e quindi l’Europa in primis, doveva applicarsi a elaborare in termini concettuali l’idea stessa della pace, che non significa mancanza di guerra. La pace è un’idea che appartiene alla politica e, quindi, richiede una politica che si ispiri all’incivilimento dei popoli, all’aiuto e alla solidarietà internazionale, alla salvaguardia dei diritti; insomma, alla costruzione di tutto quanto implica un nuovo umanesimo di cui tutti possano usufruire e al quale tutti sono chiamati a concorrere. La pace è una cultura fondata su una concezione dell’uomo non sul non uso delle armi.

    Dalla guerra fredda l’Occidente è uscito restando in piedi mentre la Russia era in ginocchio. Così la pace, quale concetto politico, doveva implicare che il vincitore offriva la propria mano al vinto per rialzarsi e per concordare insieme le forme di una convivenza cooperante.

    Questo aiuto, se ci ricordiamo bene, era quanto Gorbaciov aveva in fondo chiesto quando tutto il suo mondo stava per crollare; qualche cosa arrivò, ma era insignificante. Gli Stati Uniti preferirono fidarsi di Eltsin – espressione tipica e rozza della concezione orientale del potere – senza disegno strategico alcuno… Ma Eltsin altro non era se non il pre-putinismo. Il resto è sotto gli occhi di tutti.

    Fu uno sbaglio di grosse dimensioni. Proviamo, invece, a immaginare come avrebbero potuto evolversi le cose se l’Europa e gli USA avessero avuto coraggio e si fosse preso atto che, caduta l’URSS, l’alleanza militare atlantica come era stata concepita non aveva più senso e che, oramai, la questione, sicuramente fondamentale, della sicurezza andava reimpostata tenendo conto e pure coinvolgendo quanto era venuto dopo il regime comunista in Russia.

    Il coraggio non c’è stato. La guerra è venuta per colpa della Russia. E uno strumento, che sembrava arcaico, come la Nato ha ripreso vigore risucchiando la politica in una spirale bellicista. Non solo: ma facendosi scudo dell’aggressività di Putin, il problema dell’Europa sembra essere diventato quello della sua massima militarizzazione strategica.

    Si dirà che è solo realismo, ma il termine è equivoco e giustificatorio; anche Kissinger definiva realismo bombardare la Cambogia e il Laos nonché fare fuori Salvator Allende e la democrazia cilena.

    La condanna di Putin e gli aiuti all’Ucraina sono fuori discussione. E, tuttavia, non ci convince l’affermazione secondo cui essa combatterebbe anche per la nostra libertà. La verità è che qui si combatte tutti con l’Ucraina perché l’amministrazione americana vuole dimostrare di essere una superpotenza e, a questo punto, la sconfitta di Putin diviene il fattore di controprova della propria forza.

 

Volesse il cielo che Putin cadesse. E quanto sta succedendo con la Wagner ci dice della sua debolezza. Ma, Putin o non Putin, il problema della Russia e dei rapporti dell’Occidente con essa si riproporrebbe comunque nei termini cui dicevamo sopra.

    Dopodiché, alla pace, intesa come termine delle ostilità, si arriverà. Ma forse sarà ancora con Putin che bisognerà fare i conti. O forse il conflitto si fermerà, entro l’anno, anche perché Biden non ha interesse alcuno a fare una campagna elettorale per la rielezione con la guerra in atto.

    Leviamoci di mente, tuttavia, che tutto ritornerà come prima e che l’Ucraina riavrà il territorio perso. Sarà più facile per Kiev riottenere la Crimea che non il Donbass, ove esiste una popolazione che russa è e russa vuole essere.

    Che cosa vediamo al di là dei discorsi – inevitabili peraltro – su una corsia speciale per l’entrata dell’Ucraina nell’Europa e nella Nato? Vediamo, forse, la pace? Se davvero si volesse lavorare alla pace (beninteso: secondo il concetto politico cui accennavamo prima), la qualità del discorso cambierebbe, ma che tutto ciò avvenga di corsa non ci sembra realistico.

    La situazione è difficile, e i popoli del nostro continente che andranno alle urne l’anno prossimo per il rinnovo del Parlamento europeo si trovano questa volta di fronte a un appuntamento elettorale non secondario rispetto a quello per il proprio Paese.

    Al momento, però, non vediamo né forze culturali né forze politiche andare oltre le solite formule. In un clima dettato più dalla pancia che dal cervello, la situazione rischia di avvitarsi ancora di più. E, ancora di più, l’Europa diverrebbe meno autonoma nell’alleanza con gli Stati Uniti.

 

 

*) PAOLO BAGNOLI è nato a Colle Val d’Elsa nel 1947. Già senatore della Repubblica, ordinario di Storia delle dottrine politiche, ha insegnato dal 1987 al 1997 presso l’Università Bocconi di Milano; dal 1998 insegna presso la seconda Facoltà di Lettere dell’Università di Siena con sede in Arezzo. Collabora a numerose riviste di tipo scientifico e culturali tra le quali “Il Ponte” e “Nuova Antologia”. Nel 2012 ha fondato e dirige la rivista La Rivoluzione Democratica (Biblion Edizioni, Milano).

              

                                                   

economia

 

L’Unione Africana nel G20

 

Il primo ministro indiano Narendra Modi ha preso l’iniziativa di invitare l’Unione africana (UA) a entrare nel G20. Lo ha fatto contattando al riguardo tutti i governi dei Paesi membri, anche in forza del fatto che nel 2023 l’India ne detiene la presidenza. A tal proposito, si ricordi che il prossimo summit si terrà il 9 settembre a Nuova Delhi. L’India si pone così come leader dei paesi in via di sviluppo e del cosiddetto Global South. Fa anche un passo in avanti nella sua aspirazione di diventare un membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all’economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

La mossa del premier indiano Modi a favore dell’Unione Africana (UA) è di grande rilevanza rispetto al progressivo e necessario multilateralismo della politica globale, allo spostamento in corso dell’asse geopolitico dal Nord verso il Sud del mondo e al cambiamento delle istituzioni di Bretton Woods.

    D’altra parte, se è vero che l’Africa è il continente del futuro, sarebbe inconcepibile tenerla ai margini, mantenendo nei suoi confronti un atteggiamento di vetusto sapore colonialista.

    Da diversi anni i governi africani e l’UA, il raggruppamento panafricano che raccoglie ben 55 Stati, operano per questo obiettivo. Nel febbraio di quest’anno il vertice dell’UA ha chiesto di far parte del G20. La proposta era stata presentata da Macky Sall, presidente del Senegal e allora anche dell’UA. Il vertice ha riaffermato “la necessità che l’Africa sia maggiormente coinvolta nei processi decisionali” sui temi della governance globale. Legittimo, opportuno e vera necessità.

 

Il primo ministro indiano Narendra Modi con il presidente del Sud Africa

Cyril Ramaphosa nel giugno scorso

 

All’ingresso dell’UA nel G20 sarebbero favorevoli 13 membri: Stati Uniti, Cina, Russia, India, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Brasile, Sudafrica, Indonesia, Giappone e UE. I non convinti e gli ostili sarebbero i restanti 7 paesi: Australia, Canada, Argentina, Messico, Corea del Sud, Arabia Saudita e Turchia. Come si può notare tra i membri c’è già l’Unione europea. L’UA non sarebbe un’eccezione.

    L’ingresso dell’UA renderebbe il G20 più rappresentativo, inclusivo e, quindi, più influente. Oggi il G20 rappresenta il 65% della popolazione mondiale, domani, con l’Africa, rappresenterebbe l’80% del pianeta. Già rappresenta l’85% del pil globale e il 75% dell’intero commercio mondiale.

    Durante una visita in Africa lo scorso febbraio, anche Janet Yellen, segretario al Tesoro Usa, aveva osservato che le comunità africane sono “sproporzionatamente vulnerabili agli effetti delle sfide globali. Qualsiasi soluzione seria richiede leadership e voci africane”. E’ confermato che sull’agenda dell’incontro di Modi con il presidente Biden c’era anche l’adesione dell’UA al G20. Nel Summit Usa – Africa dello scorso dicembre il presidente americano si era già espresso favorevolmente.

    I vantaggi per l’Africa sono evidenti. Il G20 è profondamente coinvolto nella definizione di soluzioni alle sfide globali come la crescita economica, i cambiamenti climatici, la transizione energetica, lo sviluppo sostenibile, l’onere del debito, l’emancipazione delle donne e l’economia digitale. L’Africa avrebbe finalmente voce in capitolo in tutte le deliberazioni e decisioni.

    I critici all’ammissione dell’UA sostengono che ciò ridurrebbe l’efficacia del G20, mettendo in discussione la capacità dell’Africa di fornire una partecipazione rilevante. Se si prende in considerazione la lista degli attuali membri anche l’argomento, circa eventuali simili richieste da parte di altri continenti, è poco pertinente. D’altra parte oggi l’unico membro africano è il Sud Africa. Il paragone con l’Europa è stridente: con meno della metà della popolazione africana, essa conta 6 membri: Germania, Francia, Italia, Gran Bretagna, Russia e UE.

    Molti, non solo gli scettici, ignorano il potenziale economico dell’Africa, della sua ricchezza mineraria, dell’espansione demografica, dell’integrazione economica attraverso l’African Continental Free Trade Area (AfCFTA) e della crescente influenza negli affari mondiali. L’intera UA oggi è soltanto al nono posto tra le maggiori economie, ma entro la metà di questo secolo coprirà il 25% della popolazione mondiale e, con il suo alto tasso di fertilità, potrebbe fornire circa la metà della forza lavoro del pianeta.

    Gli esperti indiani ritengono opportuno che l’Africa sia inclusa nel G20 proprio durante la presidenza indiana. E, per rispondere a chi è fedele al marchio del G20, essi affermano che il nome può rimanere invariato. C’è già un grande precedente: anche con 134 paesi in via di sviluppo al suo interno, il G77, l’organizzazione intergovernativa delle Nazioni Unite per il disarmo e per un nuovo ordine economico internazionale, non ha cambiato nome. L’Unione europea, se parlasse con una sola voce, potrebbe subito fare la differenza a favore dell’adesione dell’UA al G20. Speriamo che ciò avvenga presto e nell’interesse generale.

    

         

 

Folon, Affiche pour le Bicentenaire

de la Révolution française (1989)

       

     

Dalla Fondazione Rosselli di Firenze

http://www.rosselli.org/

 

Roma, mercoledì 26 luglio 2023 ore 11.00

Sala Capitolare – Chiostro del Convento di Santa

Maria Sopra Minerva – Piazza della Minerva, 38

 

 

PIERRE CARNITI

Tentare l’impossibile per fare il possibile

Testimonianze sulla storia di un uomo libero

di Flo Carniti – Castelvecchi editore

 

Presentazione del volume

 

Saluti

Dario Parrini, Senatore (PD), Vicepresidente Commissione Affari Costituzionali del Senato

 

Intervengono:

Alessia Potecchi, economista, PD Milano Metropolitana

Anna Maria Furlan, Senatrice (PD), già segretaria generale della CISL

Luigi Sbarra, Segretario generale CISL

Valdo Spini, Presidente Fondazione Circolo Rosselli

Rosario Saro Vella, Vescovo Diocesi Moramanga Madagascar

 

In collaborazione con FCR

Info e accrediti: fondazione.circolorosselli@gmail.com

       

 

L’Avvenire dei lavoratori

EDITRICE SOCIALISTA FONDATA NEL 1897

 

L’Avvenire dei lavoratori è parte della Società Cooperativa Italiana Zurigo, storico istituto che opera in emigra­zione senza fini di lucro e che nel triennio 1941-1944 fu sede del “Centro estero socialista”. Fondato nel 1897 dalla federazione estera del Partito Socialista Italiano e dall’Unione Sindacale Svizzera come organo di stampa per le nascenti organizzazioni operaie all’estero, L’ADL ha preso parte attiva al movimento pacifista durante la Prima guerra mon­diale; durante il ventennio fascista ha ospitato in co-edizione l’Avanti! garantendo la stampa e la distribuzione dei materiali elaborati dal Centro estero socialista in opposizione alla dittatura e a sostegno della Resistenza. Nel secondo Dopoguerra L’ADL ha iniziato una nuova, lunga battaglia per l’integrazione dei mi­gran­ti, contro la xenofobia e per la dignità della persona umana. Dal 1996, in controtendenza rispetto all’eclissi della sinistra italiana, diamo il nostro contributo alla salvaguardia di un patrimonio ideale che appar­tiene a tutti.

 

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