L’ADL del 14 settembre 2023

L’Avvenire dei lavoratori

14 settembre 2023 – e-Settimanale della più antica testata della sinistra italiana

Organo della F.S.I.S., Centro socialista italiano all’estero, fondato nel 1894 / Direttore: Andrea Ermano

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IPSE DIXIT

 

Diario di un pazzo – «Salvate almeno i bambini!» – Lu Xun

 

Un film sul “Continente Vero” – «Io capitano di Matteo Garrone è un film unico e imperdibile. Un film doloroso, commovente, necessario. Nessuno ha raccontato con questa potenza e prospettiva la migrazione dall’Africa… Un film unico e imperdibile» – Annamaria Gallone (vai al sito)

 

      

                                                     

PER ASSOLUTA MANCANZA DI SPAZIO QUESTA SETTIMANA SIAMO COSTRETTI A RINVIARE la pubblicazione di ALCUNi testi – CE NE SCUSIAMO CON LETTRICI, LETTORI, AUTRICI E AUTORI. – la red dell’adl

      

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EDITORIALE

 

Io capitano

 

Le faccine sorridenti, le teorie deliranti

e un mare a forma di cimitero.

 

di Andrea Ermano

 

Eravamo abituati a associare il capitano a una famosa pasta dentifricia, poi l’appellativo fu usurpato da un leader dell’estrema destra italiana, l’attuale vicepremier Salvini, che mentre scriviamo fa il coccodrillo in Parlamento per gli incidenti sul lavoro. Ma adesso, dato il film Io capitano del regista Matteo Garrone, Leone d’argento alla regia e Premio Marcello Mastroianni all’attore protagonista Seydou Sarr, questa parola significa tutta un’altra cosa ancora.

 

“Devi rimanere qui a respirare l’aria che respiro io”

 

Significa l’odissea migrante di Seydou e Moussa, due amici senegalesi (benestanti) che per spirito di avventura decidono di emigrare. Sognano di diventare musicisti in Italia. Affrontano il deserto, i famigerati centri di detenzione libici e una distesa d’acqua a forma di cimitero, anticamente detta “mare nostrum”.

    Famosa la scena del trasporto di carne umana sballottata su un autocarro che corre pazzescamente lungo le dune del Sahara. E quando incontra una cunetta più dura… “Uno è caduto!” – urlano uomini, donne e bambini a bordo, gesticolando disperati. Ma ai guidatori non passa nemmeno per l’anticamera del cervello di fermarsi. La corsa continua, mentre vedi lo sfortunato giovane sbracciarsi laggiù nella scia di sabbia di una jeep sempre più lontana (vai al clip).

    Tutti quelli che non cadranno dall’autocarro arriveranno prima o poi da qualche parte e spenderanno i soldi risparmiati o presi in prestito da loro o dalle loro famiglie per aggiudicarsi una traversata su imbarcazioni di fortuna, dette così perché saranno molto fortunati se salendovi riusciranno a non affogare, com’è accaduto invece a 94 persone in quel di Cutro il 26 febbraio scorso.

    Si dirà che queste scene si ripetono da migliaia di anni. Chi non conosce le peripezie di Odisseo? E Cutro dista meno di centosettanta chilometri dalla spiaggia (oggi turistica) da cui quell’uom dal multiforme ingegno prese il mare, andando incontro al suo peggior naufragio la volta in cui rischiò veramente di morire annegato. Eppure anche Omero impallidirebbe forse nell’apprendere che nei soli primi tre mesi del 2023 il Mediterraneo centrale ha inghiottito 441 persone mentre tentavano di raggiungere l’Europa (fonte ONU).

    Ma che dire allora di quelli che – uomini, donne, vecchi e bambini – annegano pur rimanendo a casa loro?! Già. Chi ha costruito le dighe in Libia? Probabilmente ingegneri italiani. Probabilmente ottimi ingegneri italiani (e dico “ottimi” senza ironia). Peccato che il surriscaldamento stia violentemente bussando alle nostre porte. Surriscaldamento preannunciato oltre mezzo secolo fa dal Club of Rome, giù giù fino a Greta Thunberg, una ragazzina urlante nel deserto che avanza. Ma noi eravamo “distratti”.

    Ora, però, pare che il tempo delle distrazioni sia finito. Perché anche le dighe delle nostre centrali, al pari di quelle libiche, sono probabilmente inidonee a reggere l’urto dei mutamenti climatici. Così Gianfranco Becciu, professore di costruzioni idrauliche al Politecnico di Milano, in una recente intervista al Corriere.

    Fenomeni di massiccia piovosità improvvisa combinandosi all’impermeabilità di un suolo ormai super-edificato possono produrre inondazioni e investire grandi strutture progettate in un’altra epoca. Di qui i seri problemi di tenuta statica cui assistiamo, “un elemento comune alle alluvioni in Libia, in Grecia o in Emilia Romagna”, avverte il professor Becciu.

 

 

Anonimo fiorentino, Il naufragio del-

la nave di Ulisse, 1390-1400 ca., Bi-

blioteca Vaticana, MS lat. 4776

 

Se il clima appare assai surriscaldato anche in rapporto alla pressione migratoria, che a sua volta consegue alle siccità non meno che alle inondazioni, sul piano economico assistiamo invece a una tendenziale glaciazione.

    Si parla di frenata del PIL europeo al seguito della recessione prevista in Germania per il 2024. Laddove questo per l’Italia della politica significa che anche l’attuale premier andrà incontro a “tempi duri”, come dice Lina Palmerini sul “Sole 24 Ore”. Ma la stessa Giorgia Meloni, con sguardo impavido o giù di lì, prevede a sua volta che “si moltiplicheranno gli attacchi, le trappole e i tentativi di disarcionarci”.

   Ove ciò accadesse, un grande clan famigliare ne soffrirebbe parecchio, osserva il direttore del “Fatto Qutidiano”, Marco Travaglio, snocciolando in TV la sequela di sorelle, cugini e parenti al seguito della premier. Mentre il filosofo Massimo Cacciari chiosa per Lilli Gruber il fenomeno familista meloniano, che va ricondotto all’assenza di una classe dirigente di estrema destra in grado di fare fronte all’esplosione di consenso in corso. Non ti bastano gli ingegneri aderenti a FDI? E mettece un parente…

 

Non sapremmo dire in che rapporto stia il familismo con la xenofobia alimentata dalla destra. Questo richiederebbe un capitolo a sé. Ma la manfrina è comunque insopportabile. In quanto nessuno – né la capofamiglia né i suoi famigli – punta veramente a evitare i flussi migratori. Braccia assolutamente indispensabili all’economia.

    Dunque, va benissimo reclutarli nei loro villaggi, imbarcarli sulle nostre carrette del mare, rinchiuderli nei centri di “accoglienza” e spedirli infine negli ospedali, nei campi e nelle officine. Purché non si accorgano della loro importanza sistemica. E sai la fatica mentre la sinistra ama spudoratamente l’emigrazione fino a desiderare il melting pot e (colmo dei colmi) a preferire “un migrante africano a uno moldavo”. Parole testuali della premier Meloni.

    Il delirio prosegue così: per la sinistra “il moldavo è troppo affine alla nostra cultura. E dunque non è funzionale al disegno di mescolare il più possibile per diluire. È molto più funzionale a questo disegno il migrante africano. E poco importa se il migrante africano o mediorientale o dell’Asia centrale e meridionale rischia di integrarsi più difficilmente”, sostiene Meloni.

    Parole tutte tratte da La versione di Giorgia, l’ultimo libro dell’attuale premier. La quale ci spiega financo le segrete ragioni per cui “la sinistra” spingerebbe a spalancare porte e portoni: «Sono due obiettivi occulti. Snaturare l’identità delle nazioni e rivedere al ribasso i diritti dei lavoratori», sostiene una premier di nome Giorgia. E rieccoci – incredibile ma vero – alla “congiura mondiale”.

    Il grande Umberto Eco aveva già diagnosticato tutto ciò quando si mise a parlare della sindrome del fascismo eterno: «L’Ur-Fascismo è ancora intorno a noi», scriveva il professore. E così proseguiva: «L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo».

    E sotto le spoglie più innocenti, troviamo le “faccine” simpatiche e ammiccanti che Giorgia Meloni sempre ci dispensa insieme alle sue usuali formule sui migranti colpevoli di «una situazione insostenibile in termini di sicurezza».

    Falso! Completamente falso! Secondo una ricerca del CENSIS, pubblicata lo scorso dicembre 2022, «i reati denunciati sono circa 700.000 in meno di quelli denunciati nell’anno 2012, con un decremento pari al 25,4% (vedi qui). Gli omicidi volontari passano dai 528 del 2012 ai 304 del 2021», come attesta, dati alla mano, il sito dell’Associazione Etica della Pubblica Ammini­stra­zione.

    Ma, allora, dov’è mai finito l’onore della sua nazione, presidente Meloni, se lei può spararle così grosse pur di non dover dire “grazie” alle persone che le danno una mano a navigare in mezzo a questo Mediterraneo divenuto un unico grande camposanto?

 

«Pronti a difendere i confini dell’Italia. FDI vuole il

#BloccoNavale: una missione europea in accordo

con gli Stati nordafricani per fermare la tratta di es­-

seri umani e le morti in mare. In Italia si entra solo

legalmente. No ai flussi migratori gestiti da crimina-

li e scafisti», parola di Giorgia Meloni

       

    

L’Avvenire dei lavoratori

 

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Ultima notizia

da “Save the Children”

 

Oggi davanti al porto di Lampedusa è morto un neonato. La barca con il bimbo a bordo si sarebbe capovolta quando gli occupanti si sono mossi vedendo arrivare la motovedetta della Guardia costiera. Gli altri migranti sono stati recuperati dalla Guardia costiera. La salma è stata portata alla camera mortuaria del cimitero.

 

     

   

Da Anbamed, notizie dal Mediterraneo,

riceviamo e volentieri pubblichiamo

 

Da Derna al Marocco

 

Libia – Si aggrava la situazione dei sopravvissuti a Derna. Manca l’acqua potabile e c’è un serio rischio per la diffusione di malattie a causa della presenza di migliaia di morti non ancora raggiunti dalle unità di soccorso. 30 mila i senza tetto. 120 milioni di metri cubi hanno invaso la città a causa del crollo di due dighe. Le due parti della città, costruita su una valle percorsa da un torrente, sono completamente separate dopo il crollo dei 5 ponti che le collegavano. Le zone invase dalle acque sono di 2 milioni di metri quadrati; sono stati trascinati in mare interi quartieri. Un rapporto tecnico del 2002 aveva messo in guardia dal pericolo di crollo delle dighe, ma in 20 anni non sono state compiute le necessarie manutenzioni.

    Alla mezzanotte di ieri, il numero dei corpi raccolti sono 6800, centinaia dei quali sono stati rigettati dal mare. Oltre 11 mila i dispersi per i quali sono giunte segnalazioni dai parenti. Le operazioni di soccorso continuano ma sono oramai perse le speranze di trovare persone vive sotto le macerie delle case crollate.

    La solidarietà internazionale va a rilento, ma quella interna ha sorpreso tutta la popolazione. Una gara di invio di aiuti e unità di soccorso, ospedali da campo e soprattutto camion di acqua imbottigliata sono giunti da tutti i comuni libici senza distinzione delle divisioni politiche.

    Una nota stonata è arrivata dal premier Dbeiba che, in tempo di lutto nazionale, ha lanciato accuse implicite dichiarando “di aver chiesto al procuratore generale della repubblica di svolgere un’indagine per scoprire le responsabilità di questo disastro”. Propaganda politica di basso livello, perché l’inchiesta giudiziaria è un atto dovuto e non è competenza dell’esecutivo.

 

Marocco – Ancora scosse di assestamento hanno spaventato la popolazione delle zone montane ad est di Marrakesh, già duramente colpite dal sisma. Un’altra notte da passare all’aperto per centinaia di migliaia di abitanti. Il piazzale della moschea di Marrakesh è stato trasformato in un campo di tende. La gente non si fida di tornare nelle case.

    Le operazioni di soccorso continuano, ma nelle ultime 24 ore non sono state trovate persone vive sotto le macerie. In alcuni villaggi di montagna, i soccorritori sono arrivati solo ieri e non hanno potuto fare nulla, perché quel che si poteva fare lo avevano compiuto i pochi sopravvissuti a mani nude.

    La solidarietà interna è stata spettacolare. In tutte le città e villaggi del Marocco si sono registrate file per la donazione di sangue. Raccolte fondi e aiuti sono state organizzate dappertutto. L’apertura dell’anno scolastico è stata rinviata in tutto il regno per solidarietà con le zone colpite.

    La difficoltà maggiore riguarda la fase futura, per far fronte alla stagione invernale in protezione delle popolazioni sfollate. E l’altro problema serio è quello della ripresa delle attività economiche nella zona, che negli ultimi 20 anni avevano subito trasformazioni verso il settore turistico; adesso sconvolto. Il governo ha già avviato le procedure per il censimento delle case distrutte, con un piano di destinare indennizzi ai proprietari in modo di far ripartire una ripresa delle attività edilizie.

       

     

 

SPIGOLATURE

 

Il treno lento

di un uomo violento

 

di Renzo Balmelli

 

COLOMBE. Viviamo un’era carica di incertezze sulla quale incombe l’ombra minacciosa di un conflitto di cui non si intravvede la fine. Le diplomazie di mezzo mondo sono impegnate a saltare da un aereo all’altro nel tentativo di tamponare i disastri provocati dall’uomo. Il recente G 20 di Nuova Dehli, che in pratica ha sancito l’avvento di una nuova epoca multipolare, ha condannato l’invasione dell’Ucraina, senza tuttavia mai nominare il Cremlino. Da Mosca si attendeva forse un segnale di ravvedimento che verosimilmente non arriverà mai. Non lascia invece tranquille le cancellerie la prospettiva della rinnovata intesa tra il leader nord coreano e Putin suggellata con toni trionfali­stici nell’Estremo oriente della Russia, a ridosso di una regione strategica oltremodo sensibile. Per dare il massimo risalto alla sua missione, Kim Jong-il ha attraversato la frontiera a bordo del suo leggendario treno speciale, lento ma blindato, sul quale hanno trovato posto i suoi migliori consiglieri militari. Nonostante la segretezza non era quindi difficile immaginare quali fossero i temi caldi del coreo­grafi­co vertice concordato da entrambi. Che le due parti abbiano, inoltre, espresso unanime e pieno sostegno alla “lotta sacra” della Russia fa capire che su quel lussuoso convoglio di antica foggia, come un qualche vecchio film di James Bond, viaggiasse tanta roba, ma non uno stormo di candide e alate colombe della pace.

 

“Da quella stretta sangue umano stilla” (Carducci)

 

EMERGENZA. In Italia esiste uno stuolo piuttosto robusto di elettori che dopo avere votato per Giorgia Meloni, ora non perdono una sola occasione per criticarne l’operato. E’ un zoccolo duro che in queste ultime ore é tornato a farsi vivo attraverso le colonne della testata più vicina alla maggioranza. Motivo della discordia é la situazione di emergenza venutasi a creare a Lampedusa ormai al collasso in seguito al forte aumento degli sbarchi di migranti che hanno messo piede sull’isola. Di fronte al momento critico, difficile da gestire, gli eroi della tastiera pongono quasi un ultimatum alla premier intimandole di passare dalle parole ai fatti , come aveva promesso in campagna elettorale. Ovvero di mettere quindi in atto una vera politica di destra in risposta a coloro che a cominciare da papa Francesco richiamano l’invito ad accogliere senza restrizioni di sorta tutti gli esseri umani, con un approccio più incisivo e strutturale. Da lei si esige insomma il pugno di ferro contro i profughi del mare, contro l’Europa, contro le ONG in modo da ovviare alla mancanza di adeguate misure per porre fine a uno stato di cose molto complesso.  Politica di destra. Ma quale? Al di la degli aspetti umanitari, resta da chiarire a quale destra si riferiscono i postulanti. Non è un mistero infatti che in quello schieramento esistono a tale proposito versioni piuttosto contrastanti fonte di non pochi dissidi. Nei prossimi giorni sarà ospite a Pontida, per il raduno del Carroccio, Marine Le Pen, leader del Rassemblement National che ha raccolto l’invito di Matteo Salvini per unire le forze in vista delle elezioni europee. Questa idea di destra, di una destra di ben altro stampo alquanto autoritaria e intransigente tuttavia non convince i partner della coalizione. Sarà curioso vedere come nella maggioranza verrà l’impostazione che si vuole dare alla presenza dalla controversa esponente dell’euroscetticismo nazional-sovranista.  L’ospite francese – dicono – non potrà essere mai un nostro alleato poiché i valori che noi rappresentiamo sono alternativi a quelli del Rassemblement. Insomma, affaire à suivre. E intanto ai migranti chi ci pensa?

 

NOCCHIERE. Mai come oggi si avverte l’insopprimibile bisogno di non svegliarsi la mattina al rombo delle cannoniere. Più di trent’anni fa, in una pregevo­lis­sima, sapiente raccolta di brevi saggi e racconti edita da Marcos Y Marcos quando il prezzo dei libri era ancora indicato in lire, Peter Bichsel già ne parlava. Tra i maggiori scrittori svizzeri di lingua tedesca, Bichsel, guidato dal suo straordinario intuito, dava conto di quel bisogno di pace con l’’onestà che è sempre stata il filo conduttore della sua vita e della sua attività letteraria. Rileggendo quel volume colpisce la citazione di una frase attribuita a Hemingway e più che mai attuale: il Nobel della letteratura indicava, tra le sue maggiori ispirazioni, la capacità di poter ancora leggere “per la prima volta” Guerra e pace, e potersene “meravigliare come fosse la prima volta”. Fondamentale di quel libro – annotava Leone Ginzburg nella Prefazione einaudiana – è capire la differenza sostanziale tra i due concetti. Guerra è il mondo storico, Pace il mondo umano. Ora che il pianeta sembra una nave senza nocchiere è forse giunto il momento di riscoprire il capolavoro di Tolstoj. No, anzi, senza forse.

 

ZERBINO. Settembre non è un mese qualunque. Quasi ovunque segna la fine delle vacanze e la ripresa delle quotidiane attività in ogni campo, dalla politica alla scuola. A sottolinearne la peculiarità concorrono inoltre due ricorrenze che cadono entrambe il giorno 11 di questo nono mese dell’anno. In ordine cronologico, il primo anniversario ci riporta indietro di mezzo secolo, il secondo di vent’anni. E tutti e due sono segnati a caratteri cubitali sui libri di storia tra gli eventi più tragici che sconvolsero l’umanità. Fino al 2001, anno dell’attentato alle Torri Gemelle di New York, veniva ricordato solo l’11 settembre del 1973, data storica per l’efferato attacco alla democrazia in Cile. Nel palazzo presidenziale della Moneda, assediato dai militari golpisti, Salvador Allende, capo del primo governo di sinistra eletto dal popolo del suo Paese cadeva sotto i colpi di sgherri e militari guidati dal generale Augusto Pinochet. Fu l’inizio di una dittatura brutale durata 17 anni e incoraggiata dagli Stati Uniti che in nome di bacati ideali consideravano quel Paese sovrano alla stregua dello zerbino di casa propria. Da allora sono trascorsi cinquant’anni: certi muri e certe ideologie appartengono al passato. I modi di vivere, di viaggiare e spostarsi da un Paese all’altro sono molto mutati, gli equilibri geo-strategici variano a seconda delle contingenze, eppure le tracce di quel turpe evento non sono ancora state del tutto cancellate. Ovunque nel mondo riaffiorano tentazioni nostalgiche che sembravano sepolte e invece riemergono dai loro sepolcri imbiancati, camuffate da balorde derive nazional-sovraniste che sotto l’abito della festa celano il vero volto delle dittature di oggi sempre in agguato.

                                             

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una riflessione

 

RIDUZIONE Dell’ORARIO DI LAVORO

 

Lavorare meno per lavorare tutti è un noto slogan dei sindacati che lo hanno propagandato nel tempo. Poi però, si è dovuto fare i conti con la competitività produttiva dettata dalla logica del profitto capitalistico, ma anche con le filosofie dello stacanovismo comunista nate in Russia.

 

di Salvatore Rondello

https://www.rivoluzionedemocratica.it/

 

Recentemente, l’idea della riduzione dell’orario di lavoro è stata propagandata populisticamente anche dal Movimento Cinque Stelle per ottenere consensi durante l’ultima campagna elettorale.

    In realtà, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario è un tema sempre più ricorrente, anche a livello internazionale.

    La riduzione dell’orario di lavoro, chiamata anche “settimana corta”, è stata sperimentata in diversi paesi e aziende. Con la flessibilità sul lavoro ottenuta grazie alla pandemia da coronavirus, la riduzione dell’orario sarebbe un passaggio in più per ottenere un miglior equilibrio tra vita lavorativa e privata, pensiero che troviamo già nell’ideologia del socialismo liberale dal quale deriva l’idea del socialismo “dal volto umano” propugnata a metà degli anni settanta da Francesco De Martino.

    La proposta dà sicuramente molti vantaggi, soprattutto in termini di maggior benessere del lavoratore, ma gli economisti non sono ancora sicuri di quali potrebbero essere gli effetti.

    Secondo il Movimento 5 Stelle una sperimentazione di riduzione dell’orario di lavoro dovrebbe riguardare soprattutto i settori a più alta intensità tecnologica. Per incoraggiarne la fattibilità, le imprese che aderiscono al programma otterrebbero esoneri, crediti di imposta e incentivi aziendali per l’acquisto di nuove dotazioni tecnologiche e nuovi macchinari.

    Secondo Giuseppe Conte, in una intervista rilasciata alla Stampa, si tratta di una sperimentazione su base volontaria, in modo da non imporla dall’alto alle imprese, con l’obiettivo di ridurre di quattro ore le tradizionali 40 settimanali.

    L’argomento, con minori dettagli ed in forma quasi di atto dovuto, si ritrova anche nei programmi del Partito Democratico e in quello di Sinistra Italiana e Verdi.

    Dal dopoguerra a oggi, le ore di lavoro annuali per lavoratore sono scese in maniera significativa in quasi tutti i paesi OCSE, l’organizzazione che raggruppa i 35 paesi più sviluppati al mondo, grazie alla diffusione di migliori condizioni di lavoro. Oggi si può affermare che più una nazione è ricca, meno si lavora: all’interno dei paesi OCSE il paese in cui si lavora di più è il Messico, quello in cui si lavora di meno la Germania (almeno stando alle ore lavorate). In proposito va ricordato che in Germania è molto sviluppata la cogestione che è la base di partenza per la democrazia economica.

    L’Italia si trova più o meno a metà della classifica, con 1.668,5 ore lavorate in media da ogni lavoratore in un anno. Vuol dire passare in media quasi un quinto del tempo a lavorare. Tra i paesi dell’Unione Europea si lavora di più in Grecia, Polonia, Irlanda, Estonia e Repubblica Ceca.

    Oltre alle ore effettivamente passate al lavoro, una misura essenziale per capire la questione è la produttività, ossia quanta ricchezza si produce in un determinato periodo lavorativo. Indica l’efficienza con cui è impiegato il lavoro all’interno nel sistema produttivo. Più si produce in un determinato lasso di tempo, più si è efficienti, più si è produttivi. La produttività può essere misurata in tanti modi, come il PIL, l’orario per addetto o il PIL annuale per addetto.

    Dipende da varie cose, come la tecnologia, la formazione dei lavoratori, le modalità con cui i lavoratori sono inseriti nelle dinamiche aziendali e così via. Ed è per questo che indirettamente le retribuzioni dei lavoratori sono legate alla produttività. Più un paese è produttivo e più, in media, gli stipendi saranno alti, perché è più alto il reddito che ogni lavoratore produce con il suo lavoro. È un fattore essenziale per la crescita e lo sviluppo, perché implica un uso efficiente delle risorse a disposizione.

    L’Italia non è messa bene in termini di produttività: oggi ogni lavoratore produce in media una ricchezza annuale in termini di PIL pari a 70.894 euro, contro i quasi 80 mila in Germania e gli 86 mila in Francia. È anche sotto la media dell’area dei paesi che adottano l’euro, pari a 76 mila euro.

    Non solo il valore è basso rispetto agli altri paesi europei, ma a confronto cresce meno: rispetto a 20 anni fa la produttività del lavoro in Italia è cresciuta del 31 per cento, contro il 51 per cento della Germania e il 50 della Francia. Anche in Spagna, che ha valori più bassi, è cresciuta del 55 per cento.

    Non sorprende quindi che anche le retribuzioni non siano cresciute tanto quanto negli altri paesi. Secondo i dati dell’OCSE, rispetto a vent’anni, fa la retribuzione media in Italia è cresciuta del 3,5 per cento, contro il 19 per cento in Germania e il 24 in Francia. Fa peggio la Spagna, dove gli stipendi sono cresciuti in media solo del 2,7 per cento.

    Secondo alcuni, concentrare in meno ore il lavoro garantirebbe un aumento della produttività, quindi nel lungo termine anche delle retribuzioni. Inoltre, sarebbe un passo ulteriore, dopo lo smart working, verso un miglioramento del rapporto tra vita privata e lavoro. Dunque, un lavoratore più appagato e meno stressato può essere anche più produttivo.

    C’è poi chi sostiene che la riduzione dell’orario di lavoro sarebbe positiva per il raggiungimento della parità di genere, perché aumenterebbe la partecipazione al lavoro delle donne, grazie a una suddivisione più bilanciata della cura della famiglia.

    Altro argomento a favore è che ridurre l’orario di lavoro porterebbe a un aumento dell’occupazione. La formula “lavorare meno, lavorare tutti” l’hanno proposta in molti e da molto tempo, anche se oggi non è questo l’argomento di punta dei sostenitori della riduzione dell’orario di lavoro.

    Nel 1933 Giovanni Agnelli, il fondatore della Fiat, disse a Luigi Einaudi che «la riduzione proporzionale e generale delle ore di lavoro risolve il problema di distribuire il lavoro equamente fra tutti gli uomini, dando a tutti due ore addizionali di ozio». Nel 1997, la propose Fausto Bertinotti, leader di Rifondazione Comunista, durante il governo Prodi. E negli ultimi anni è stata rilanciata anche dal presidente dell’INPS, Pasquale Tridico.

    Chi invece è contrario, sostiene che concentrare il lavoro in meno ore rischia di sovraccaricare il lavoratore, causando più stress. Se poi la riduzione dell’orario viene introdotta a parità di stipendio, aumenterebbe il costo orario del lavoro, con un conseguente aumento degli oneri per un’impresa che deve assumere più dipendenti per compensare le ore lavorate in meno.

    Inoltre, molti fanno riferimento ai lavori su turni, che non possono lavorare per obiettivi e concentrare semplicemente il lavoro in meno ore. Si pensi per esempio agli infermieri e ai commessi: se lavorano di meno devono essere sostituiti, con un aggravio dei costi per le imprese.

    La Francia ha una legislazione sul tempo pieno a 35 ore settimanali. La riforma, che è sempre stata molto discussa, è stata introdotta in due fasi alla fine degli anni Novanta: nel 1998 con la legge Aubry I, che la introdusse su base volontaria, e nel 2000 con la legge Aubry II, che generalizzò per tutte le aziende una serie di agevolazioni fiscali, lasciò alle imprese stesse libertà di negoziare gli aspetti applicativi della riduzione e congelò i salari.

    Sull’esperienza francese ci sono diverse valutazioni: c’è chi attribuisce l’effetto positivo sull’occupazione alla riduzione dell’orario di lavoro e chi invece alla maggiore flessibilità e alla riduzione delle imposte; alcuni hanno sottolineato l’intensificazione del lavoro e che, a qualche anno dalla riforma, l’orario medio sia tornato a crescere con il ricorso agli straordinari, e il fatto che le 35 ore siano costate moltissimo allo stato.

    Anche in Portogallo nel 1996 è stato ridotto l’orario di lavoro, da 44 a 40 ore, a parità di salario e senza che fosse prevista una compensazione per le aziende. In Italia, nel 1997, l’orario massimo è passato da 48 a 40 ore. In questo caso, però, si è trattato di una riforma principalmente su carta, perché, di fatto, la maggior parte dei contratti collettivi prevedeva già 40 ore.

    Negli ultimi anni sono state introdotte altre riduzioni. In Islanda è stato avviato un test nel 2015 che ha avuto esiti promettenti: l’orario di lavoro è stato ridotto per 2500 lavoratori a 35 o 36 ore settimanali senza ridurre la retribuzione. Oltre a un maggior benessere dei lavoratori, sembra che i servizi forniti non ne abbiano risentito e che anzi ci sia stata una maggior produttività.

    In Belgio, a inizio 2022 sono state accolte le richieste dei lavoratori introducendo per gradi la settimana lavorativa corta, ma a parità di ore, che vengono concentrate in quattro giorni invece che in cinque. L’accordo deve avvenire tra dipendente e datore di lavoro che dovrà fornire solide ragioni per poter rifiutare la richiesta. Dopo un periodo di prova di 6 mesi, entrambi decideranno se proseguire o meno.

    Sperimentazioni di settimana lavorativa corta sono in corso anche in Spagna, con le ore che passano da 39 a 32. Nel Regno Unito, i giorni di lavoro a settimana passano da 5 a 4 in alcune aziende. In Giappone, nel 2019, Microsoft ha concesso un giorno libero in più a settimana ai propri dipendenti con il risultato che la produttività è aumentata del 40%.

    Si tratta ancora di sperimentazioni e a livello scientifico ed economico non si può dire ancora moltissimo sulla riduzione dell’orario di lavoro, perché non ci sono moltissimi studi al riguardo.

    C’è però una recente ricerca fatta da IRVAPP, l’Istituto per la Ricerca Valutativa sulle Politiche Pubbliche, che ha misurato l’impatto di una misura del genere su occupazione, produttività e salari, analizzando le esperienze su cui ci sono più dati, come quelle degli anni Novanta. Lo studio rileva che ridurre l’orario di lavoro non ha avuto alcun effetto sull’occupazione, quindi né crea né distrugge posti di lavoro. In più, gli effetti positivi in termini di salari e produttività sono talmente piccoli da risultare insignificanti.

    Andrea Garnero, economista dell’OCSE, uno degli autori dello studio, ha detto: “Lavorare meno per lavorare tutti è uno slogan sessantottino e un’utopia. È apprezzabile però che le proposte in circolazione non abbiano come obiettivo l’aumento dell’occupazione, anche perché non c’è alcuna evidenza scientifica che una riduzione dell’orario di lavoro porti a una redistribuzione tra più lavoratori. L’argomento più interessante della proposta riguarda il migliore rapporto tra vita privata e lavorativa, su cui però manca totalmente l’evidenza scientifica. L’altro aspetto interessante è l’aumento della produttività, ma i risultati che ci sono non sono molto chiari. Per il momento esistono solo sperimentazioni a livello di impresa che sembrano dimostrarne un aumento, ma niente di validato a livello scientifico. Almeno, a differenza di un possibile aumento dell’occupazione, che proprio è un argomento non realistico, un aumento della produttività è una prospettiva quantomeno ragionevole e sensata”.

    Garnero poi sostiene che forse converrebbe invertire la questione: “La crescita economica si può ridistribuire nel lavoro o aumentando le retribuzioni o dando più tempo libero ai lavoratori, che poi è quello che abbiamo visto storicamente. Rispetto a cento anni fa lavoriamo molto meno, sia in termini di ore che di giorni, abbiamo le ferie, la malattia, le pensioni. I nostri nonni e bisnonni non avevano niente di tutto ciò. La riduzione dell’orario di lavoro non dovrebbe essere vista quindi come la leva per aumentare la produttività, ma in senso opposto, al pari di un aumento salariale”.

    In ogni caso, Garnero ritiene che sarà difficile vedere una riforma cadere dall’alto su imprese e lavoratori, affermando: “Un altro punto che apprezzo di questa discussione è che si parla di sperimentazioni, incentivi e prove. Procedere alla francese oggi sarebbe un errore perché la situazione è troppo diversa da settore a settore”.

    Tuttavia, il dibattito sulla riduzione degli orari di lavoro resta incentrato sulle logiche del profitto dettati dagli egoismi umani. A mio avviso, si dovrebbe pensare al soddisfacimento dei bisogni dell’umanità ed alla parità dei diritti umani. In tal, senso la soluzione ottimale da proporre è proprio quella del socialismo liberale che prevede la realizzazione della democrazia economica, indispensabile per contrastare lo strapotere delle multinazionali e dei meccanismi di accumulazione del capitale insiti nella politica economica del cosiddetto neoliberismo di Milton Friedman e della “Scuola di Chicago”. Inoltre, il socialismo liberale resta il solo pensiero politico che riuscirebbe ad armonizzare gli equilibri tra capitale e lavoro, ma anche tra produttività e ambiente risolvendo alla base i problemi che affliggono l’umanità nei nostri giorni tra i quali emergono il progresso tecnologico (digitale, intelligenza artificiale, robotizzazione e automazione dei processi produttivi), gli inquinamenti del pianeta, e l’equa distribuzione della ricchezza.

 

Da La Rivoluzione Democratica

      

                                                

PER ASSOLUTA MANCANZA DI SPAZIO QUESTA SETTIMANA SIAMO COSTRETTI A RINVIARE la pubblicazione di ALCUNi testi – CE NE SCUSIAMO CON LETTRICI, LETTORI, AUTRICI E AUTORI. – la red dell’adl

     

da >>> TERZO GIORNALE *)

https://www.terzogiornale.it/

 

Il nostro Cile

 

Per comprendere che cosa veramente accadde nel Paese sudamericano negli anni del governo di Unidad popular, bisogna vedere tutte le quattro ore e mezza del film documentario, diviso in tre parti, di Patricio Guzmán, La battaglia del Cile

 

di Rino Genovese

 

Non si tratta soltanto di una pregevole opera cinematografica, ma di un lavoro storiografico capace di sottrarre quella drammatica vicenda al compianto generalizzato che ne seguì, e dura tuttora, per via della crudeltà del colpo di Stato militare con cui si chiuse. Ci sono luoghi della terra nei quali si direbbe che lo “spirito del mondo” (per parlare ironicamente come Hegel) concentri per un periodo tutte le sue contraddizioni, e si diverta poi a dissolverle senza in alcun modo risolverle, lasciandole aperte alla riflessione postuma.

    C’è da dire anzitutto che, quasi incredibilmente, il Cile di quegli anni offre l’unico caso di apertura di un processo rivoluzionario per via pacifica, sfuggendo al mito della insurrezione armata guidata da una ristretta élite (cosa che, a suo modo, era anche la prospettiva castrista-guevarista). A essere rilevante, nella esperienza cilena, fu la grande partecipazione democratica da parte delle masse popolari. Unidad popular non fu infatti una semplice alleanza elettorale di partiti di sinistra ma qualcosa che ebbe forti radici. Non ci furono soltanto delle “nazionalizzazioni”, cioè delle statalizzazioni, come per esempio quella delle miniere di rame (di cui al tempo il Cile era tra i massimi produttori mondiali); ci fu anche e soprattutto il passaggio all’“area sociale” di molte attività economiche sia industriali sia agricole, queste ultime anche attraverso l’occupazione delle terre. Le espropriazioni, le socializzazioni, avevano a volte una base legale e a volte non l’avevano: erano iniziative dal basso nel senso dell’autogestione e della costruzione di quel poder popular che avrebbe dovuto essere di appoggio e di stimolo al governo del presidente democraticamente eletto, Salvador Allende, e non la preparazione di un “dualismo di potere” che sarebbe sfociato nell’insurrezione armata secondo il classico schema bolscevico.

 

 

    Fu un’illusione? Quante possibilità aveva questo processo, almeno sulla carta, di non fallire e non condurre a un bagno di sangue? Poche, ovviamente, nel contesto internazionale e nel clima della guerra fredda, con gli Stati Uniti che tramavano nemmeno troppo nell’ombra. Il lungo sciopero degli autotrasportatori, nel 1972, sostenuto finanziariamente dagli statunitensi, mise in ginocchio il Paese – eppure contribuì indirettamente a una crescita del poder popular, allo sviluppo dei “commando comunali” che organizzavano gli approvvigionamenti dei beni di prima necessità e anche il trasporto delle persone con i loro camion (si pensi che, nella capitale Santiago, ben il 70% degli autobus era in mano privata). I coordinamenti inter-aziendali, poi, programmavano la produzione e la realizzazione dei pezzi di ricambio, la cui mancanza era una conseguenza dell’embargo nordamericano. Pur tra enormi difficoltà, insomma, si videro all’opera la creatività e lo spirito di sacrificio di quelle zone della società che avevano nel governo e nei partiti di Unidad popular il loro riferimento.

    Ma il quadro politico fu fin dall’inizio a dir poco impervio: quasi non consentiva spazi di manovra. Ciò dipese in primo luogo dal fatto che si trattava di un regime presidenziale tipicamente sudamericano, con l’elezione del presidente in un unico turno. Allende risultò eletto, ma Unidad popular fu sempre minoritaria in parlamento – anche quando, sei mesi prima del golpe, con il voto per l’assemblea legislativa (il Congresso), migliorò le proprie posizioni arrivando al 43%. L’opposizione di destra (la Democrazia cristiana e il Partito nazionale) aveva una maggioranza relativa, grazie alla quale, secondo la Costituzione, poteva bloccare le iniziative del governo e sfiduciare i ministri: cosa che fece a ripetizione. Con i due terzi dei voti in parlamento – cifra che però l’opposizione non raggiunse mai – avrebbe potuto costringere Allende alle dimissioni.

    Nella sua famosa riflessione sul golpe, che comunque aveva non poche ragioni nello stabilire un parallelismo tra la situazione italiana e quella cilena, Berlinguer parlò di un 51% dei voti che non sarebbe stato sufficiente a governare un Paese. Tralasciò di sottolineare che la sinistra in Cile fu sempre lontana da quella maggioranza assoluta, sia pure risicata, e che il quadro complessivo consigliava di cercare appunto un compromesso (lasciamo stare se “storico”) con una parte dell’opposizione, segnatamente con i democristiani dell’ex presidente della Repubblica, Eduardo Frei. Questa strada fu effettivamente intrapresa da Allende: i governi con i militari all’interno furono fatti anche per facilitare il dialogo con una parte dell’opposizione; ma la cosa risultò impossibile a causa dell’intransigenza della Democrazia cristiana, che sempre più si andava spostando su posizioni filogolpiste (si pensi che, dalla sede del partito, in occasione di una manifestazione della sinistra, si era addirittura sparato sulla folla, uccidendo un operaio e ferendone altri sei). La radicalizzazione dello scontro, e una politica del caos per spingere Allende alle dimissioni, furono la strategia della destra. A quel punto una soluzione sarebbe stata quella di sciogliere di autorità il Congresso, basandosi anche su una parte di militari leali come Carlos Prats (ammesso e non concesso che questi sarebbe stato d’accordo). Ma Allende non volle una rottura del quadro costituzionale: preferì cercare di rafforzarsi con una proposta di plebiscito che avrebbe lanciato proprio l’11 settembre 1973, il giorno in cui si ebbe il colpo di Stato.

    Qui interviene un’imponderabilità dovuta al fattore tempo. Un tentativo di golpe minoritario era stato rintuzzato alla fine di giugno. Si sarebbe trattato, da parte di Allende e dei dirigenti di Unidad popular, di cercare di fare in fretta al fine di evitare che l’opzione golpista ottenesse il consenso della maggioranza delle forze armate… (continua sul sito)

 

*) Terzo Giornale – La Fondazione per la critica sociale e un gruppo di amici giornalisti hanno aperto questo sito con aggiornamenti quotidiani (dal lunedì al venerdì) per fornire non un “primo” giornale su cui leggere le notizie, non un “secondo”, come si usa definire un organo di commenti e approfondimenti, ma un giornale “terzo” che intende offrire un orientamento improntato a una rigorosa selezione dei temi e degli argomenti, già “tagliata” in partenza nel senso di un socialismo ecologista. >>> vai al sito

       

   

Da Avanti! online

www.avantionline.it/

 

ULTIMO DISCORSO al PE

di Ursula von der Leyen

 

L’Ue deve “guardare avanti e prepararsi per restare competitiva” durante la transizione verde. “Per questo ho chiesto a Mario Draghi, uno dei più grandi cervelli economici d’Europa, di preparare un rapporto sul futuro della competitività europea”. Lo annuncia la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, nell’ultimo discorso sullo stato dell’Unione della legislatura, in plenaria a Strasburgo. “Perché l’Europa farà ‘whatever it takes’, qualsiasi cosa serva, per mantenere il suo vantaggio competitivo”, afferma.

 

Nel discorso von der Leyen ha delineato le principali priorità e iniziative per l’anno a venire, ricordando che “grazie a questo Parlamento, agli Stati membri e alla mia squadra di commissari, abbiamo realizzato oltre il 90% delle linee guida politiche che ho presentato nel 2019. Insieme abbiamo dimostrato che, quando l’Europa è coraggiosa, fa le cose. E il nostro lavoro è lungi dall’essere terminato: quindi, stiamo uniti. Manteniamo gli impegni oggi e prepariamoci per domani”.

    L’appello contro la violenza sulle donne: “So che quest’Aula sostiene la nostra proposta sulla lotta alla violenza contro le donne. Anche qui vorrei che si trasformasse in legge un altro principio fondamentale: No, significa no. Non può esserci vera uguaglianza senza libertà dalla violenza”.

    “Chiesto a Draghi un report sulla competitività”: “Tre sfide – lavoro, inflazione e ambiente commerciale – arrivano in un momento in cui chiediamo anche all’industria di guidare la transizione pulita. Dobbiamo quindi guardare avanti e stabilire come rimanere competitivi mentre lo facciamo. Per questo motivo ho chiesto a Mario Draghi – una delle grandi menti economiche europee – di preparare un rapporto sul futuro della competitività europea” ha detto von der Leyen.

    La gestione dei migranti sia “umana”. “Il nostro lavoro sulla migrazione si basa sulla convinzione che l’unità sia alla nostra portata”, assicurando “sicurezza e umanità. Un accordo sul patto non è mai stato così vicino. Il Parlamento e il Consiglio hanno l’opportunità storica di superarlo. Dimostriamo che l’Europa può gestire la migrazione in modo efficace e compassionevole.” ha detto la presidente della Commissione Ue lanciando l’organizzazione di una Conferenza internazionale sulla lotta al traffico di esseri umani. “Abbiamo firmato un partenariato con la Tunisia che apporta vantaggi reciproci oltre la migrazione: dall’energia e l’istruzione, alle competenze e alla sicurezza. E ora vogliamo lavorare su accordi simili con altri Paesi” ha aggiunto.

 

PIERPAOLO BOMBARDIERI – SEGRETARIO GENERALE UIL: NULLA DI NUOVO – “Il discorso della Presidente Von Der Leyen sullo stato dell’Unione non aggiunge sostanzialmente nulla di nuovo alle sfide che l’Unione Europea dovrebbe intraprendere, ma che fatica ad affrontare con determinazione e, soprattutto, con compattezza.

    Abbiamo apprezzato il richiamo alla transizione giusta, ma ad oggi non esistono ancora misure in grado di preservare i lavoratori e i posti di lavoro dagli effetti negativi della transizione e la proposta di creare un fondo sociale per il clima non è stata menzionata.

    Sulla politica industriale comune, l’Europa resta al palo: dal discorso è sparito ogni riferimento alla proposta di fondo sovrano europeo che la Uil aveva chiesto di sostenere. Il rischio oggi più che mai è che le azioni dei singoli Stati, come la Germania, in materia di aiuti di Stato possano alterare il mercato unico a discapito di altri Paesi. Servono azioni comuni e non solitarie. Serve rafforzare l’Europa unita e non frammentarla.

    Delusione anche sul fronte della revisione del Patto di Stabilità che non ha trovato adeguatamente spazio nel discorso della Presidente. Il ritorno delle regole pre-pandemia e le possibili prospettive di riforma obbligherebbero il nostro Paese a piani rientro che colpirebbero le fasce più deboli della popolazione, i lavoratori più poveri e la sanità. La UIL è impegnata da oltre un anno con la campagna “Patto di Stabilità? No Grazie” e il prossimo 13 ottobre saremo a Parigi insieme ai sindacati francesi ed europei per chiedere il superamento dell’austerità che ha minato e continua a minare lo stato sociale”.

       

                                            

Su Radio Radicale

https://www.radioradicale.it/

 

Il senso del lavoro oggi 

 

Vedi l’audiovideo su RR

 

Programma – Intervento di saluto del presidente del CNEL Renato Brunetta. Dopo l’introduzione del presidente di Unioncamere, Andrea Prete, il programma prevede l’intervento del segretario generale di Unioncamere, Giuseppe Tripoli.

    Successivamente è previsto il panel “Il senso del lavoro”, declinato in tre temi: il primo, incentrato sul senso del lavoro nell’attuale contesto sociale, verrà affrontato da Giorgio De Rita, segretario generale del Censis; il secondo, basato sul senso del lavoro nell’esperienza delle persone, sarà approfondito da Francesca Coin, sociologa alla SUPSI; il terzo, sul senso del lavoro nelle istituzioni, sarà trattato da Tiziano Treu, professore emerito alla Università Cattolica di Milano.

    A seguire, il presidente della Corte costituzionale Silvana Sciarra si soffermerà sul senso del lavoro nella Costituzione.

    I lavori proseguono con un dibattito al quale parteciperanno Luca Antonini, giudice della Corte costituzionale, Carlo Borgomeo, presidente di Assaeroporti, P. Vincenzo D’Adamo, rettore della Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, Simonetta Iarlori, chief Human Resources & Org.

    Multiutility Toscana, esperta in neuroscienze, Laura Lega, capo Dipartimento del ministero dell’Interno, Massimo Luciani, professore emerito de “La Sapienza” e accademico dei Lincei.

    I lavori saranno chiusi da Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà.

    Coordinerà la mattinata Alberto Orioli, vice direttore vicario e capo della redazione romana.

       

 

L’Avvenire dei lavoratori

 

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L’Avvenire dei lavoratori è parte della Società Cooperativa Italiana Zurigo, storico istituto che opera in emigra­zione senza fini di lucro e che nel triennio 1941-1944 fu sede del “Centro estero socialista”. Fondato nel 1897 dalla federazione estera del Partito Socialista Italiano e dall’Unione Sindacale Svizzera come organo di stampa per le nascenti organizzazioni operaie all’estero, L’ADL ha preso parte attiva al movimento pacifista durante la Prima guerra mon­diale; durante il ventennio fascista ha ospitato in co-edizione l’Avanti! garantendo la stampa e la distribuzione dei materiali elaborati dal Centro estero socialista in opposizione alla dittatura e a sostegno della Resistenza. Nel secondo Dopoguerra L’ADL ha iniziato una nuova, lunga battaglia per l’integrazione dei mi­gran­ti, contro la xenofobia e per la dignità della persona umana. Dal 1996, in controtendenza rispetto all’eclissi della sinistra italiana, diamo il nostro contributo alla salvaguardia di un patrimonio ideale che appar­tiene a tutti.

 

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