L’ADL del 28 settembre 2023

L’Avvenire dei lavoratori

28 settembre 2023 – e-Settimanale della più antica testata della sinistra italiana

Organo della F.S.I.S., Centro socialista italiano all’estero, fondato nel 1894 / Direttore: Andrea Ermano

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IPSE DIXIT

 

 

La via maestra – «La Costituzione italiana – nata dalla Resistenza – delinea un modello di democrazia e di società che pone alla base della Repubblica il lavoro, l’uguaglianza di tutte le persone, i diritti civili e sociali fondamentali che lo Stato, nella sua articolazione istituzionale unitaria, ha il dovere primario di promuovere attivamente rimuovendo “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Per questo rivendichiamo che i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione tornino ad essere pienamente riconosciuti e siano resi concretamente esigibili ad ogni latitudine del Paese (da nord a sud, dalle grandi città alle periferie, dai centri urbani alle aree interne).» – Queste le organizzazioni promotrici > vedi

      

              

 

EDITORIALE

 

TRA passioni, ideologie e

istituzioni repubblicane

 

di Andrea Ermano

 

Si è attenuata l’emozione per la morte di Giorgio Napolitano, presidente emerito della Repubblica. Alcuni commentatori (molti) ne hanno scritto bene o benis­simo, i fogli di estrema destra si sono scagliati contro la sua figura di statista “partigiano”, l’informazione di sinistra-sinistra (e anche di quella conservatrice) ha posto accenti un po’ freddini, o freddi, o addirittura biasimevoli sulla sua storia di “migliorista”. Ma da dove viene questa parola?

    I comunisti più veraci si opponevano aspramente ai compagni di partito, rei di aver perso la fede nel mito fondativo della Rivoluzione d’Ottobre, preferendo posizioni politico-sindacali volte, più realisticamente, a migliorare nel concreto la vita della classe lavoratrice italiana, senza promesse palingenetiche. Nacque così la parola “migliorista” – che fu il dileggio dei seguaci rivoluzionari di Pietro Secchia verso i riformisti del PCI, capeggiati da Giorgio Amendola. Oggi si dileggia di meno, ma in quei tempi i “rivoluzionari” erano ancora molto severi.

 

Il presidente Napolitano con Gugliemo Epifani nel

2006 (Archivio storico Presidenza della Repubblica)

 

Dal semplice binomio rivoluzione vs riforme discendevano in modo praticamente necessario concezioni contrapposte delle tattiche e delle strategie da adottare. Gli uni puntavano verso la “crisi del capitalismo” e la “conquista delle masse”, senza troppo curarsi della “politica delle alleanze” che avrebbe potuto annacquare il vino verace del comunismo in compromissori tatticismi. Perciò l’epiteto “migliorista”, come osserva sull’Avanti! Rodolfo Ruocco (leggi), rappresentava nel PCI un insulto cocente, «quasi un’imputazione di collusione con il “nemico di classe” (la borghesia) e con i cugini-avversari del Psi», partito candidato via via a sostituire i saragattiani del PSDI nel ruolo di bersaglio polemico quale simbolo del tradimento controrivoluzionario.

    La narrazione rivoluzionaria – che poi, nel secondo dopoguerra, diventerà progressivamente appannaggio dei gruppi a sinistra del PCI e poi scomparirà di fatto dall’orizzonte politico italiano – rivendicava di poter sancire la propria netta superiorità. Una superiorità anzitutto morale, ma anche antropologica, perché essa prefigurava il famosissimo (nei tempi antichi, oggi meno gettonato) “uomo nuovo”. E all’uomo nuovo non importava quanti milioni fossero i morti nei gulag perché era un’epoca in cui il fine giustifica i mezzi. Il mito della “purezza” ha spesso alimentato, e ancora talvolta alimenta, varie forme di settarismo, secondo la nota regola per cui ogni rivoluzionario puro viene presto affiancato da un rivoluzionario ancor più puro che alla fine lo epura. Detta così, sembra cosa da poco, se a ciò non fossero intrecciate – per commistione o per contrasto – le grandi tragedie del Novecento.

    Storicamente, è un dato che la spaccatura tra riformisti e rivoluzionari abbia favorito, nei primi anni Venti, la “rivoluzione fascista”. Ma le catastrofi causate dalla divisione a sinistra non si fermano certo qui, quanto meno nel nostro Paese. Dove, dopo la caduta di Mussolini e il referendum istituzionale del 2 giugno 1947, la neonata Repubblica italiana divenne ben presto una “democrazia bloccata”. Perché il quasi-monopolio del consenso filogovernativo gestito da DC-USA-Vaticano si combinò con il quasi-monopolio antigovernativo gestito dal PCI e dall’URSS.

    Il massiccio finanziamento sovietico del PCI fu tollerato dal nuovo sistema di potere. Esso favoriva un’opposizione roboante, ma impossibilitata a spendersi concorrendo al governo del Paese. Dopodiché, il veto USA non impedì al PCI durante tutto il Secondo Dopoguerra di esercitare un notevole potere di co-decisione nel Palazzo, senza per altro rinunciare ad agitare la rivoluzione nelle piazze, retaggio questo di “doppiezza togliattiana”. Ed è in questo “spazio logico-politico” che si dipana l’attività di Giorgio Napolitano in quanto fautore di tutt’altra strategia, che consisteva, invece, nell’abbandonare Mosca in direzione del Patto Atlantico e di puntare alla trasformazione socialdemocratica del PCI. Una prospettiva alquanto futuribile e di là da venire, perché il partito di Via delle Botteghe Oscure rimaneva saldamente ancorato all’obbedienza moscovita.

    Nel secondo Dopoguerra, ai socialisti sembrava non restare altro che il seguente dilemma: o subalternità alla DC, oppure subalternità al PCI. E lungo questa faglia passò la divisione, interna al mondo socialista, tra i seguaci di Pietro Nenni, allineati a sinistra, mentre i seguaci di Giuseppe Saragat partecipavano al governo centrista a trazione degasperiana.

    Poi, però, nel 1956, i carri armati russi invasero l’Ungheria (analogamente a quanto accade oggi in Ucraina). Né allora mancarono all’interno del PCI i fautori entusiasti dell’invasione, i cosiddetti “carristi”. Altri, come Napolitano, subirono in silenzioso dissenso rapporti di forza interni sfavorevoli. Altri ancora – tra cui Antonio Giolitti, Loris Fortuna e Antonio Ghirelli – abbandonarono il partito per protesta ed entrarono nel PSI. Dove c’era ad accoglierli Pietro Nenni che ruppe con l’URSS fragorosamente – proprio mentre si accingeva ad avviare l’esperienza del primo Centrosinistra. Di lì i mitici anni Sessanta, che portarono con sé uno slancio di progresso a tutt’oggi ineguagliato nella storia unitaria.

    Poi venne Craxi, che mirava a creare per il riformismo italiano uno spazio politico più consono e adeguato, sfidando sia la DC sia il PCI e liberando grandi energie di rinnovamento durante tutti gli anni Ottanta, ma finendo a sua volta sotto le macerie quando quelli iniziarono la loro controffensiva. E venne giù l’intero edificio della “Prima Repubblica”.

    La minoranza filosocialista del PCI (come pure i forlaniani e gli andreottiani nella DC) tentò di costruire un sistema stabile di alleanze insieme al leader socialista, ma alla fine Craxi fu sconfitto.

    I “miglioristi” avevano nel frattempo iniziato una loro lunga marcia e, passo dopo passo, conquistarono l’intero PCI, che divenne Partito Democratico della Sinistra. E si deve non da ultimo a quest’area interna di dirigenti e intellettuali, guidata infine da Giorgio Napolitano, se “il partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer” seppe conservare parte cospicua dei propri consensi pur essendosi dovuto trasformare, lungo svolte abbastanza traumatiche, prima nel PDS di Occhetto, poi nei DS di D’Alema, fino all’attuale PD di Elly Schlein.

    Oltre alla battaglia interna, che ha fruttificato seppur tardivamente, vanno ascritti tra i maggiori meriti di Giorgio Napolitano e della sua corrente migliorista: un forte europeismo di tipo marcatamente occidentale (in antitesi all’obbedienza orientale) e un’assoluta fermezza democratica, nettamente opposta sia alle velleità insurrezionaliste di Pietro Secchia in anni ormai lontani, ma anche alla deriva populista in atto fin dall’epoca della Grande Gazzarra seguita alla Grande Arroganza con cui i socialisti lanciarono la sfida della Grande Riforma, senza riuscire però ad articolare una strategia delle alleanze a essa proporzionata.

    Insomma, se – e sottolineo il “se” – trentacinque anni or sono, durante quell’intorno di eventi che seguirono il crollo dell’URSS, le posizioni unitarie di Giorgio Napolitano avessero prevalso nel PCI e poi incontrato una sponda adeguata nel PSI, oggi non saremmo nella situazione miseranda in cui ci troviamo.

    Ma – e sottolineo anche il “ma” – la storia è un po’ più complicata dei due monosillabi citati.

       

   

L’Avvenire dei lavoratori

 

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SPIGOLATURE

 

arrivarono persone

 

di Renzo Balmelli

 

CHIAVE. Fra meno di un mese si terranno nella Confederazione elvetica le elezioni per il rinnovo del Parlamento e del governo. In questi giorni capita di leggere sui maggiori quotidiani uno slogan dal significato inequivocabile per ricordare all’opinione pubblica che “solo gli svizzeri fanno la Svizzera”. Berna non fa parte dell’Ue, ma con Bruxelles è vincolata da rapporti sempre più importanti che una fetta dell’elettorato tuttavia non sempre accetta di buon grado. Il messaggio della destra, intriso di sovranismo, proietta perciò oltre i confini nazionali l’interesse per una consultazione che ricalca quanto già avviene in Europa sullo stesso argomento. Nel suo piccolo in certo qual senso la patria di Tell, offrirà in anteprima, a seconda dall’esito delle urne, una interessante chiave di lettura alle altre cancellerie in vista delle europee del 2024 su un tema assai controverso e dibattuto che ovunque nel continente tocca un tasto dolente. Il Paese nel cuore delle alpi conta oltre nove milioni di abitanti e gli stranieri residenti rappresentano quasi un quarto della popolazione totale. Spesso si dimentica che anche loro concorrono a fare la Svizzera di oggi come la conosciamo, così come vi contribuirono in modo decisivo e spesso in condizioni difficilissime gli emigranti italiani sui cantieri di montagna e nell’edilizia. Quindi, più che mai vale la massima di Max Frisch: «Chiamammo braccia, e arrivarono persone».

 

Max Frisch nell’anno 1966

© Archivio Max Frisch, Zurigo

 

SLALOM. Nell’attuale congiuntura, che non è proprio un’oasi di serenità, l’arte di governare equivale a camminare su una corda tesa senza reti di protezione. Con l’estrema destra sempre più simile a una inquietante mina vagante e il rombo dei cannoni assordante più che mai, nessuno ha la certezza, come si usa dire, di arrivare a mangiare il panettone a Natale. Ma a occhio e croce non sembra che Giorgia Meloni, al netto di prestazioni non proprio esaltanti, corra questo rischio. Almeno per ora. Forse in cuor suo avrebbe sperato dopo un anno a Palazzo Chigi, di festeggiare l’anniversario inseguendo le notti magiche di un’estate italiana. La realtà dei fatti parla tuttavia un’altra lingua. Dal giorno della sua elezione le va dato atto, questo sì, di non essere mai stata ferma un istante. A qualsiasi ora la si vede in televisione su tutti i canali, in particolare alla RAI, ormai plasmata a sua immagine e somiglianza. Spesso però l’eccessivo attivismo non è automaticamente sinonimo di riuscita. Per dirla con una elegante perifrasi di Repubblica, sembra piuttosto l’espressione di slalom lessicali per aggirare l’ingombrante arsenale dialettico della sua parte politica. Dalla pertinente metafora si giunge alla conclusione che il suo bilancio complessivo, concluso il viaggio al termine dei primi 365 giorni, appaia ampiamente al di sotto delle aspettative. Ed è significativo notare che a mostrare segni di crescente impazienza siano proprio i suoi elettori più affezionati, molto attivi sui social e alquanto delusi da dodici mesi di promesse non mantenute.

 

PUNGOLO. Sul tema del contrasto ai migranti i e dei salvataggi in mare che le valsero una maggioranza quasi bulgara, la premier ha un conto apertissimo con alleati e avversari. L’argomento è di drammatica attualità e non meno ovvio è il fatto che in tanti anni non sia ancora stata trovata una strategia comune – tra tutti i Paesi toccati dal grave fenomeno – per affrontare l’emergenza senza ricorrere a misure vessatorie. Ora sull’argomento e l’aiuto alle ONG che salvano i naufraghi è in corso un braccio di ferro tra Roma e Berlino che francamente lascia perplessi. Chi rischia la vita in mare – parole di Papa Francesco – non invade, cerca accoglienza, cerca vita. Nel rispetto dello spirito umanitario, che sempre dovrebbe prevalere, il cuore conosce ragioni che la ragion di stato a volte purtroppo non conosce. La verità – osserva Elly Schlein diventata ormai un pungolo costante per la maggioranza – è che non si hanno soluzioni, ma solo calcoli elettorali sulla pelle dei più fragili. Si giunge così all’incredibile paradosso di chiedere a chi non ha nemmeno una lira in tasca una cauzione di circa cinquemila euro per evitare la detenzione nei centri di prima accoglienza. Che è come riscrivere la storia di Robin Hood alla rovescia.

 

IMPRESE. Nel mattino di una calda estate di cinquant’anni fa, non tanto diversa da quella che abbiamo appena conosciuto, moriva lo scrittore Guido Morselli. Già depresso per i continui rifiuti degli editori, il 31 luglio del 1973, decise di farla finita e di lasciare il mondo che non aveva capito quanto fosse bravo. Di recente sono apparse le cronache degli inconvenienti che hanno reso oltremodo difficile il transito dei treni al San Gottardo. L’appassionato lettore alla riscoperta di classici percorsi narrativi che non tramontano mai, non avrà tardato a rituffarsi nelle pagine di Divertimento 1889, presente nel prestigioso catalogo Adelphi, ambientato appunto nella impervia via delle genti, a un’epoca che merita di essere ricordata anche per le cose incredibili che vi accadevano. Guido Morselli con felice estro inventivo narra le fantomatiche avventure di Umberto I che sulle montagne del Canton Uri cerca di evadere – come si legge nella presentazione – “dai suoi doveri regali che gli si manifestano per lo più come opprimente burocrazia”. Con questo volume siamo al cospetto di una godibilissima lettura con quale l’autore di tanti romanzi stupefacenti, uomo sensibile e sfortunato, conferma in pieno le doti che fanno di lui uno dei migliori della sua generazione.

  

   

Una lettera dagli Stati Uniti

 

USA: sciopero dei

metalmeccanici

 

Biden e Trump corteggiano i metalmeccanici dello UAW

 

di Domenico Maceri *)

 

“Se scioperi, sei licenziato”. Ecco come il senatore Tim Scott della Carolina del Sud e candidato alla nomination repubblicana risolverebbe la situazione dei metalmeccanici in Michigan, rappresentati dall’United Auto Workers (UAW), che stanno usando il loro potere di negoziare un nuovo contratto astenendosi dal lavoro.

    Scott ha continuato a spiegare che è proprio quello che fece Ronald Reagan nel 1981 quando l’allora presidente Usa licenziò tutti gli 11 mila controllori di volo. L’attuale presidente Joe Biden ha preso una posizione diametralmente opposta recandosi in Michigan, unendosi ai scioperanti per sostenerli nella loro lotta per compensi e benefici più equi. Si tratta di un’azione storica perché i presidenti tipicamente mantengono la neutralità in queste situazioni, incoraggiando ambedue le parti alla mediazione. Biden, invece, si è schierato con i lavoratori, dichiarando che Ford, General Motors e Chrysler (adesso Stellantis), le tre grandi produttrici di automobili, hanno realizzato ingenti profitti e anche i lavoratori “meritano” un compenso consono con i loro sforzi.

    Non c’è dubbio che il Partito Democratico storicamente è l’alleato naturale dei sindacati ma i repubblicani hanno cercato di corteggiare i voti dei lavoratori con promesse fasulle.

    Anche Donald Trump si è recato in Michigan invece di partecipare al secondo dibattito del suo partito organizzato dalla Fox News. L’ex presidente da imprenditore fece del tutto per evitare l’uso dei lavoratori membri del sindacato e in alcuni casi è stato denunciato. Come altri imprenditori, Trump vedeva e vede i lavoratori come un male necessario subordinando le sue attività ai profitti invece di adeguati compensi per i dipendenti. In Michigan l’ex presidente ha fatto un discorso davanti a un gruppo di metalmeccanici che non fanno parte di nessun sindacato chiedendo loro di convincere i leader dell’UAW di offrirgli il loro endorsement.

    Questi metalmeccanici che non contribuiscono quote associative al sindacato UAW non hanno nessuna influenza sugli endorsement. Ciononostante Trump ha creato la falsa impressione che stesse parlando ai membri del sindacato. Il presidente dell’UAW Shawn Fain ha capito tutto e ha dichiarato che non si incontrerà con Trump perché l’ex presidente non ha a cuore la situazione dei lavoratori, servendo invece gli interessi “dei miliardari”.

    Le visite di Biden e Trump al Michigan sono significative poiché il “Great Lakes State” (Stato dei grandi laghi), oltre ad essere il cuore dell’industria automobilistica americana, è competitivo dal punto di vista politico. Trump vinse lo Stato nel 2016 ma poi nel 2020 Biden prevalse. In un certo senso negli ultimi anni i democratici sono riusciti a prendere la leadership politica con lievi maggioranze sia alla Camera che al Senato e anche con l’elezione della governatrice Gretchen Whitmer.

 

 

Non sorprendono dunque le visite di Biden né quella di Trump, i probabili candidati alle presidenziali del 2024. Nessuno dei due sembra avere rivali per la nomination anche se nel campo repubblicano continuano gli incontri fra i 7 candidati i quali sperano di togliere la nomination a Trump. L’ex presidente quindi agisce come se avesse già la nomination in tasca assentandosi dai dibattiti sponsorizzati dalla Fox News.

    Anche prima della sua visita a fianco dei metalmeccanici in Michigan, Biden aveva dimostrato la sua tradizionale difesa dei lavoratori nonostante il possibile lato potenzialmente negativo della green energy. La spinta di Biden sullo sviluppo di auto elettriche, più facili da fabbricare, potrebbe in futuro ridurre il numero dei posti di lavoro dei metalmeccanici. L’attuale inquilino della Casa Bianca ha stabilito la meta che il 2 terzi delle macchine vendute in America entro il 2032 saranno elettriche. Inoltre le tre grandi fabbriche di automobili Ford, General Motors (GM) e Stellantis dovranno investire ingenti somme per affrontare due concorrenze. La prima è quella interna e la seconda rappresentata dalla Cina.

    La stragrande maggioranza delle auto elettriche in America sono prodotte nel Sud del Paese dove i sindacati sono quasi inesistenti per ragioni politiche. Esiste un clima anti-sindacati nel Sud e senza i sindacati i costi di produzione sono più bassi. Il Wall Street Journal ha calcolato che Tesla produce le sue macchine usando lavoratori senza rappresentanza sindacale. I dipendenti di Elon Musk, patron della Tesla, ricevono un salario medio di 34 mila dollari annui comparati a 69 mila per Stellantis, 75 mila per Ford e 80 mila per GM.

    La seconda sfida è globale con una corsa in cui gli Stati Uniti non sono assolutamente in ottima posizione. Si calcola che quasi 2 terzi delle delle macchine elettriche sono prodotte in Cina e la compagnia cinese BYD ha già superato Tesla per il numero di auto prodotte. Il problema per le aziende cinesi è rappresentato dal dazio del 27,5 percento imposto da Trump, notevolmente più alto del 10 percento in Europa.

    L’ex presidente sulla questione delle auto elettriche guarda al passato, asserendo che “sono un disastro per l’UAW e i consumatori americani”. Trump sostiene che saranno tutte “fabbricate in Cina e saranno troppo care…. causando la fine” dei posti di lavoro ai metalmeccanici che siano membri di sindacati o no. La posizione di Trump è accettata da esponenti del Partito Repubblicano, che come esprime lo slogan MAGA (“Make America Great Again”), intende ricreare l’America del passato.

    Il problema però esiste poiché la situazione dei metalmeccanici come pure degli altri sindacati in America è poco promettente anche se qualche luce inizia a intravedersi. Lo sciopero degli sceneggiatori a Hollywood è finito e il contratto negoziato, soggetto all’approvazione dei membri, appare un passo avanti. Uno dei nodi principali era la questione dell’uso dell’intelligenza artificiale per riprodurre le creazioni degli sceneggiatori e attori senza compensare il loro lavoro creativo.

    Il nodo del cambiamento alle auto elettriche che avrebbe un notevole impatto sul cambiamento climatico richiede anche serie negoziazioni. Trump e i repubblicani, guardando al passato, riflettono una visione miopica della situazione. Alla fine la questione si troverà non nell’inevitabile cambiamento alle macchine elettriche ma con la solita lotta del potere fra aziende e lavoratori. Già sappiamo da quale parte si schierano i repubblicani. Per quanto riguarda i democratici la sfida sarà di continuare a spingere nella giusta direzione sperando che i lavoratori non siano sedotti dalla retorica repubblicana.

 

*) Domenico Maceri è professore emerito all’Allan Hancock College (Santa Maria, California). Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.

           

     

L’Avvenire dei lavoratori

 

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LAVORO E DIRITTI

a cura di www.collettiva.it

 

LA MANIFESTAZIONE della cgil

 

Il 7 ottobre tutti in piazza a Roma. Cgil e oltre 100 associazioni lanciano la mobilitazione nazionale per l’attuazione della Costituzione. Per aderire: adesioni7ottobre@collettiva.it

 

Una grande manifestazione nazionale a Roma per il lavoro, contro la precarietà, per la difesa e l’attuazione della Costituzione, contro l’autonomia differenziata e lo stravolgimento della nostra Repubblica parlamentare. È “La Via Maestra. Insieme per la Costituzione”, la mobilitazione lanciata da più di 100 associazioni e reti, che a loro volta raccolgono tantissime realtà della società civile, tra cui anche la Cgil, per sabato 7 ottobre nella capitale.

    In preparazione della manifestazione, sono già in programma assemblee in tutti i posti di lavoro e nei territori per una consultazione straordinaria delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati, delle donne e dei giovani, affinché siano protagonisti di una battaglia comune per unire e cambiare il Paese, dando vita a un nuovo modello di sviluppo.

 

Lavoro stabile, libero, di qualità – La mobilitazione rivendica il diritto al lavoro stabile, libero, di qualità, fulcro di un modello di sviluppo sostenibile fondato su nuove politiche industriali. Per i firmatari occorre contrastare la precarietà dilagante, il lavoro povero e sfruttato, nel contempo aumentare i salari (rinnovando i contratti) e le pensioni, oltre a superare la legge Fornero. È il momento di introdurre il salario minimo, dare valore generale ai contratti, approvare la legge sulla rappresentanza, strumenti essenziali per contrastare i contratti pirata.

 

Il diritto alla salute – Essenziale è assicurare il diritto alla salute e un servizio sanitario nazionale e un sistema socio-sanitario che sia pubblico, solidale e universale, cui garantire le necessarie risorse economiche, umane e organizzative, per contrastare il continuo indebolimento della sanità pubblica.

    Tra le richieste delle associazioni, la necessità di recuperare i divari nell’assistenza effettivamente erogata, a partire da quella territoriale, e di valorizzare il lavoro di cura. Occorre poi investire sul personale con un piano straordinario pluriennale di assunzioni che vada oltre le stabilizzazioni e il turn-over, superi la precarietà e valorizzi le professionalità, sostenendo le persone non autosufficienti, tutelando la salute e sicurezza sul lavoro, rilanciando il ruolo della prevenzione. Solo così si garantisce la piena applicazione dell’articolo 32 della Costituzione.

 

Istruzione, ambiente, pace – Ancora, si legge nell’appello, le organizzazioni della società civile scendono in piazza per il diritto all’istruzione, dall’infanzia ai più alti gradi, e alla formazione permanente e continua, perché il diritto all’apprendimento sia garantito a tutti e per l’intero arco della vita. Il contrasto alla povertà e alle diseguaglianze e la promozione della giustizia sociale sono un altro punto centrale, insieme al diritto all’abitare e a un reddito per una vita dignitosa. Il governo va in un’altra direzione e cancella il Reddito di cittadinanza, lasciando tante persone senza alcun sostegno

    Nell’appello La Via Maestra, spazio anche al diritto a un ambiente sano e sicuro, in cui vengono tutelati acqua, suolo, biodiversità ed ecosistemi. Per questo è grave aver tolto dal Pnrr le risorse sul dissesto idrogeologico, tanto più a fronte delle alluvioni che hanno colpito alcune regioni del Paese e di una crisi climatica che va affrontata con una transizione ecologica fondata sulla difesa e la valorizzazione del lavoro e di un’economia rinnovata e sostenibile.

    E ancora: una politica di pace intesa come ripudio della guerra, con la costruzione di un sistema di difesa integrato con la dimensione civile e nonviolenta.

 

Redistribuzione delle risorse – Questi diritti, prosegue il testo, si garantiscono solo attraverso una redistribuzione delle risorse e della ricchezza che chieda di più a chi ha di più, per garantire a tutti un sistema di welfare pubblico e universalistico, che protegga e liberi dai bisogni. A cominciare da una riforma fiscale basata sui principi di equità, generalità e progressività, che sono oggi negati tanto da interventi regressivi, come ad esempio la flat tax, quanto da un’evasione fiscale sempre più insostenibile.

    Inoltre, giustizia sociale e giustizia ambientale e climatica devono andare di pari passo nella costruzione di un modello sociale che sia “nell’interesse delle future generazioni”, come recita l’articolo 9 della nostra Costituzione.

 

I pericoli dell’autonomia differenziata – Oggi però il modello sociale fondato su uguaglianza, solidarietà, accoglienza e partecipazione viene messo in discussione dal governo. Le note più preoccupanti riguardano l’autonomia differenziata, rilanciata con il ddl Calderoli, che “porterà alla definitiva disarticolazione di un sistema unitario di diritti e di politiche pubbliche volte a promuovere lo sviluppo di tutti i territori”.

    Inoltre, il superamento del modello di Repubblica parlamentare attraverso l’elezione diretta del capo dell’esecutivo (presidenzialismo, semi-presidenzialismo o premierato che sia) ridurrà ulteriormente gli spazi di democrazia, partecipazione e mediazione istituzionale, politica e sociale, rompendo irrimediabilmente l’equilibrio tra rappresentanza e governabilità.

 

La centralità del Parlamento – Per contrastare la deriva in corso – conclude l’appello – e riaffermare la necessità di un modello sociale e di sviluppo che riparta dall’attuazione della Costituzione, non dal suo stravolgimento, ci impegniamo in un percorso di confronto, iniziativa e mobilitazione comune che, a partire dai territori e nel pieno rispetto delle prerogative di ciascuno, rimetta al centro la necessità di garantire a tutte le persone e in tutto il Paese i diritti fondamentali e di salvaguardare la centralità del Parlamento contro ogni deriva di natura plebiscitaria fondata sull’uomo o sulla donna soli al comando,

 

Appuntamento quindi sabato 7 ottobre in piazza a Roma.

       

   

storia e MEMORIA

 

RICORdANDO NAPOLITANO

Ma anche FULVIO PAPI

 

di Felice Besostri *)

 

Giustamente Giorgio Napolitano ha ricevuto gli onori che gli spettano come figura eminente della politica e delle istituzioni di questa Repubblica democratica, l’unica che nella sua Costituzione ha scritto nel primo articolo, che la sovranità appartiene al popolo, e un articolo 3, che al suo secondo comma afferma “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

    Le mie occasioni di incontro personali sono avvenute soprattutto nel periodo in cui Napolitano è stato attivo nei rapporti tra PCI e SPD, ma non ho aneddoti da raccontare. Come Presidente della Repubblica portò a compimento una battaglia di principio sul potere di Grazia, che i ministri della Giustizia, di diverso orientamento politico, avevano progressivamente ridotto a un potere duale, subordinato al loro via libera.

    La revisione era iniziata con il Presidente Ciampi e il mitico consigliere giuridico del Quirinale, Salvatore Sechi, ma il Presidente Napolitano fu il primo ad esercitare il potere di Grazia come prerogativa esclusiva del Presidente della Repubblica.

    Fu il primo iscritto a un Partito Comunista a ricevere un visto di entrata negli Stati Uniti, il primo comunista in Italia Ministro degli Interni e Presidente della Repubblica e prima ancora della Commissione Affari Costituzionali del Parlamento Europeo, quello del tentativo di dotare l’Unione Europea di una Costituzione.

    Ai funerali laici nella sede della Camera dei deputati di cui è stato Presidente tra chi l’ha commemorato c’era un cardinale e alla sua camera ardente in Senato è comparso a sorpresa Papa Francesco.

    Per parte mia lo voglio commemorare ricordando il 1956, cioè quelli che con formula ipocrita sono stati definiti i “Fatti d’Ungheria”. Ma vorrei anche associare Giorgio Napolitano a un altro protagonista della vita italiana scomparso di recente, il filosofo Fulvio Papi, un grande filosofo e un semplice socialista per comportamento di vita e ideali.

    Nel 1956 Papi era un semplice cronista dell’Avanti! edizione di Milano che a fronte della terribile repressione sovietica doveva “chiudere in stampa” l’edizione del 26 ottobre. Il direttore Tullio Vecchietti era irreperibile. E così anche Pietro Nenni. La decisione che lui prese fu assunta in un editoriale, non firmato, e ciò perché non aveva diritto di firma ma anche perché firmarlo ne avrebbe sminuito il significato politico. La ripubblichiamo integralmente per lasciare ai lettori in giudizio, ma occorre dire che dopo la rivolta operaia di Berlino del 1953 e prima della Primavera di Praga con quello scritto la sinistra salvò il suo onore e Fulvio Papi aveva ragione mentre Giorgio Napolitano nell’approvare la repressione aveva torto, come ebbe il coraggio di riconoscere e questo gli fa onore.

    Sappiamo che nella liturgia comunista di allora quell’atto era la prova che nella discussione interna Napolitano, contrario alla brutale repressione, era in minoranza, come saranno in minoranza undici anni dopo i compagni del “manifesto” sull’invasione militare della Cecoslovacchia, che pose fine a quell’esperienza.  Ma proprio perché contrario fu costretto a piegarsi alle regole del centralismo democratico.

    Papi invece si oppose – non come filosofo ma come socialista; infatti, il suo maestro Antonio Banfi si riconobbe nella posizione ufficiale del PCI, di cui era parlamentare, e il loro rapporto si incrinò.

 

*) Felice C. Besostri, eletto con i laburisti di Valdo Spini al Senato (XIII legislatura) all’epoca della fondazione dei DS, è noto come costituzionalista per i ricorsi contro il Porcellum e l’Italicum.

       

   

L’Avvenire dei lavoratori – Voci su Wikipedia :

(ADL in italiano) https://it.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_lavoratori

(ADL in inglese) https://en.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_Lavoratori

(ADL in spagnolo) https://es.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_Lavoratori

(Coopi in italiano) http://it.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo

(Coopi in inglese) http://en.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo

(Coopi in tedesco) http://de.wikipedia.org/wiki/Cooperativa_italiana

 

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economia

 

Piano Mattei per l’Africa?

 

In recenti prese di posizione, citate in “Analisi Difesa”, Romano Prodi ha parlato dello sviluppo economico, infrastrutturale e sociale africano, tema non scevro di controversie dati gli interessi occidentali nella regione. Ma forse tra non molto la voce delle giovani generazioni africane si farà sentire più forte, e il resto del mondo, soprattutto l’Occidente, non potrà più ignorarla. E sarebbe bello se anche i giovani europei facessero sentire la loro voce.

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all’economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Una delle aree più colpite dalla mancanza di sviluppo in Africa è quella del Lago Ciad, nel Sahel, la regione sub sahariana. Il lago sta scomparendo con l’avanzata del deserto. Dagli anni ’60 si è ridotto del 90% mentre la popolazione circostante è passata da 5 a 60 milioni. L’esistenza di intere comunità di agricoltori, di allevatori e di pescatori è minacciata. Secondo l’Onu, 34 milioni di persone sopravvivono grazie all’assistenza umanitaria La crisi ha provocato conflitti locali e ha favorito la penetrazione del terrorismo. La gente è in fuga verso tutte le direttrici dell’emigrazione.

    La crisi non è inevitabile. Da più di quarant’anni c’è il progetto “Transaqua” che prevede un canale di 2.400 km con il trasferimento idrico per gravità dal bacino del fiume Congo verso il Lago Ciad. Ne abbiamo più volte scritto.

    Transaqua potrebbe essere una meravigliosa proposta, afferma Prodi, e l’Italia, che oggi lavora a un Piano Mattei per l’Africa, potrebbe fare da capofila, perché da sola non può farcela. Occorre una forte azione di sano lobbying, facendo appello all’Europa, alle Nazioni Unite, all’Unione Africana, agli Stati Uniti e anche alla Cina se serve. Occorrono la collaborazione di tutti e un cambio di paradigma. È ora di finirla con gli approcci separati in Africa, per i quali, ed è ormai sotto gli occhi di tutti, la Francia sta pagando un prezzo altissimo”.

    Prodi ha parlato più volte di Transaqua negli anni passati, in particolare in qualità di inviato speciale Onu per il Sahel e di presidente della “Fondazione per la collaborazione tra i popoli”.

    Il progetto fu presentato nel 1980 dalla società Bonifica, del Gruppo IRI, proprio quando Prodi ne era presidente. Esso permetterebbe la creazione di una vasta area di sviluppo agricolo e anche la produzione di corrente idroelettrica. Un volano di crescita che coinvolgerebbe direttamente i paesi che si affacciano sul bacino: Nigeria, Ciad, Camerun e Niger e, indirettamente, altri. Quarant’anni fa sarebbe costato quattro miliardi di dollari, oggi ne servirebbero circa cinquanta. Sembra una somma enorme, ma non lo è se la paragoniamo alle decine di miliardi spesi in Africa per interventi tappabuchi, o al costo di un anno della guerra in Ucraina. Il G20 dovrebbe farlo suo, dando così concretezza ai tanti discorsi sul cambiamento climatico e alle tante promesse per lo sviluppo e per l’ambiente in Africa. 

    Nonostante esista una Commissione del Bacino del Lago Ciad (LCBC) che da decenni lavora per risolvere i problemi inerenti al prosciugamento del lago e nonostante che essa nel 2018 abbia identificato in Transaqua l’unica soluzione possibile, il progetto è sempre stato osteggiato, boicottato, a livello internazionale. Per esempio, Analisi Difesa cita un rapporto del 2020 finanziato dal Commonwealth britannico e da istituzioni del governo francese (“Soft Power, Discourse Coalitions and the Proposed Inter-Basin Water Transfer Between Lake Chad and the Congo River”), che sostiene che lo scopo di Transaqua, collocando l’idrovia al centro di un sistema più vasto di trasporti pan-africano, sarebbe “in linea con i precedenti sogni espansionistici dell’Italia nel Sahel”. Un’Italia neocoloniale nell’Africa sub sahariana? Assurdità. Che lo dicano poi inglesi e francesi…

    “Quelle francesi, dice Prodi, sono obiezioni piuttosto curiose, come se in Africa non si debbano fare degli interventi infrastrutturali. Qui si tratta di aiutare la natura a recuperare una situazione di equilibrio interno a vantaggio dei popoli africani. E per capire l’importanza di Transaqua basta considerare che il bacino del Lago Ciad copre un ottavo del continente africano”.

    Purtroppo la comunità internazionale sembra volersi ancora focalizzare più sugli interventi umanitari e ambientali di breve o medio termine che su interventi radicali e risolutori a lungo termine. Forse, tra non molto, la voce delle giovani generazioni africane si farà sentire più forte e il resto del mondo, soprattutto l’occidente, non potrà più ignorarla. In merito sarebbe bello se anche i giovani europei facessero sentire la loro voce.

       

           

Da Avanti! online

www.avantionline.it/

 

Uil: “Serve un cambio di

passo sulla questione migratoria”

 

“Il ripetersi di decreti governativi in materia migratoria, con carattere puramente securitario e spesso punitivo nei confronti degli stranieri, potrà rispondere ad egoistiche esigenze di partito, ma sono destinate, a parere della Uil, solo a preoccupare l’opinione pubblica senza andare alla radice dei problemi e proporre soluzioni efficaci”, così si legge in un comunicato stampa della UIL che qui riportiamo.

 

“Dopo la discutibile idea di un decreto che moltiplica i centri per il rimpatrio, allunga fino a 18 mesi la detenzione amministrativa di migranti irregolari, e pretende dai richiedenti asilo privi di documenti l’accensione di una garanzia finanziaria per non essere rinchiusi nei centri di espulsione, oggi il Consiglio dei Ministri ha promulgato altre norme che riguardano i minori stranieri non accompagnati, i soggiornanti di lungo periodo, i visti d’ingresso e il finanziamento dei nuovi centri di trattenimento.

Al di là del merito del nuovo decreto, emerge una volontà politica di comprimere i diritti dei migranti e dei rifugiati come illogica risposta alla crescita della pressione migratoria. Questo approccio draconiano potrà portare vantaggi politici effimeri sul breve periodo, ma è destinato a non incidere minimamente sulla pressione migratoria, legata a fattori geopolitici, cambiamenti climatici, alla crescita di conflitti in Africa, al forte differenziale economico e demografico tra continenti.

    Peggiorare le condizioni di vita e di inclusione dei nuovi arrivati, non cambierà lo stato delle cose, non influirà sul volume degli sbarchi, ma soprattutto non è nell’interesse degli italiani e tantomeno dei nuovi cittadini al cui apporto l’Italia deve molto sia in termini economici che sociali e culturali.

    La Uil chiede a Governo e Parlamento di valutare con più attenzione e lungimiranza i provvedimenti in materia migratoria: investendo in inclusione, garanzia di diritti politici e sociali, lotta allo sfruttamento e al traffico delle persone”.

           

    

da >>> TERZO GIORNALE *)

https://www.terzogiornale.it/

 

IL DIPENDENTE

“Insufficiente”

 

La notizia l’ha data la Fiom di Torino. Lunedì 25 settembre è stato notificato il licenziamento a un lavoratore di Stellantis, inquadrato come impiegato nello stabilimento di Mirafiori. La Stellantis licenzia a Mirafiori. Un dipendente è stato allontanato sulla base del “rapporto” di un capo sulla base del quale si desumeva la seguente imputazione (che qui citiamo testualmente): “aver fornito una prestazione giudicata dai suoi referenti gerarchici come insufficiente e inadeguata”. Il piano di prepensionamenti fa acqua, ma nel frattempo riparte la cassa integrazione e i motori elettrici si spostano in Francia. Edi Lazzi (Fiom Torino): da noi l’azienda disinveste. Il sindacato si mobilita anche per la Marelli di Bologna.

 

di Paolo Andruccioli 

 

La notizia l’ha data la Fiom di Torino. Lunedì 25 settembre è stato notificato il licenziamento a un lavoratore di Stellantis, inquadrato come impiegato nello stabilimento di Mirafiori, con l’imputazione di “aver fornito una prestazione giudicata dai suoi referenti gerarchici come insufficiente e inadeguata”. “Egregio Signore, negli ultimi anni il Suo diligente impegno ha fornito una prestazione giudicata dai Suoi referenti gerarchici come insufficiente e inadeguata. Pertanto provvediamo con la presente a irrogarLe il licenziamento con preavviso”. Ovviamente la notizia ha fatto subito il giro dello stabilimento, quello che fu un sito mitico della storia industriale e sindacale italiana ai tempi della Fiat. E ha varcato anche i cancelli, davanti ai quali sono state organizzate centinaia di manifestazioni, scioperi, picchetti con la presenza – a volte – di politici importanti, com’era stato per esempio nel caso del comizio di Enrico Berlinguer, il 26 settembre del 1980. Il caso dell’impiegato licenziato ha fatto rumore, anche perché è stato accompagnato da un’altra serie di provvedimenti disciplinari, tutti rivolti ai colletti bianchi. Si parla di almeno sei casi, con relativa sospensione dal lavoro.

    Dalla marcia dei quadri degli anni Ottanta contro gli operai in sciopero, è passato davvero tanto tempo: siamo in un’altra epoca, oggi Mirafiori non è più quella di una volta, a cominciare dalle cifre dei dipendenti e dal ruolo molto meno strategico all’interno della produzione complessiva dell’epoca Fca-Stellantis. “Oggi – ci dice Edi Lazzi, segretario generale della Fiom di Torino – i dipendenti di Mirafiori sono circa 12mila. Di questi, 6.600 sono impiegati”. Il ridimensionamento rispetto agli anni d‘oro è stato molto consistente, e lo si vede prima di tutto dai livelli della produzione. Nella prima decade del nuovo secolo lo stabilimento produceva 218mila auto all’anno. Nel 2019 si era già scesi a 21mila, con un crollo dell’87%. Uno dei motivi di queste trasformazioni è legato alla nuova organizzazione delle linee di produzione elettriche che si prestano a una elevata automazione. Gli esperti sostengono che l’elettrico è tutto sommato più semplice da assemblare, e ha il 40% dei componenti in meno. Ci sono molte più lavorazioni ripetitive, più facilmente delegabili ai robot.

    Ma intanto il licenziamento dell’impiegato si spiega con una precisa scelta dell’azienda. Ce lo spiega sempre Edi Lazzi: “Mi sembra che ci sia un salto di qualità in negativo da parte di Stellantis rispetto al rapporto con i suoi dipendenti, anche perché ci risulta che la medesima contestazione, cui pensiamo seguirà l’identico epilogo del licenziamento, è stata comminata ad altri lavoratori. Francamente, in tanti anni che seguo le aziende metalmeccaniche del torinese, compresa la vecchia Fiat, non mi era ancora capitato un licenziamento di un impiegato perché i suoi superiori giudicano la prestazione non idonea a ipotetici standard lavorativi. Mi sembra un’assurdità, forse pensata per fare pressione nei confronti dei propri dipendenti, e spingerli ad aumentare a dismisura la prestazione lavorativa abbattendo per questa via i costi”. (continua sul sito)

 

*) Terzo Giornale – La Fondazione per la critica sociale e un gruppo di amici giornalisti hanno aperto questo sito con aggiornamenti quotidiani per fornire non un “primo” giornale su cui leggere le notizie, non un “secondo”, un organo di commenti e approfondimenti, ma un giornale “terzo” che intende offrire un orientamento improntato a una rigorosa selezione dei temi e degli argomenti, già “tagliata” nel senso di un socialismo ecologista. >>> vai al sito

       

                 

Antifascismo

 

GENNARO SANGIULIANO

MINISTRO GENTILIANO

 

Sulla morte di Gentile da queste colonne scrisse per primo Franco Fortini: «Dopo il tristo discorso sul Campidoglio, ha ceduto alla più pericolosa tentazione di un filosofo: la coerenza» (ADL 15/5/1944). Qui di seguito ospitiamo sul tema ampi stralci tratti da un testo di Francesco Mandarano (Premio Firenze 2022), che ritorna sulla figura del pensatore in camicia nera. Il quale dedicò al duce e a Hitler elogi spropositati: «La risurrezione di Mussolini era necessaria come ogni evento che rientri nella logica della storia. Logico l’intervento della Germania (…), dal Condottiero della grande Germania che quest’Italia aspettava al suo fianco (…) nella battaglia formidabile per la salvezza dell’Europa e della civiltà occidentale». L’autore di queste parole fu ucciso dai GAP fiorentini nell’aprile 1944. Subito, quel fatto di sangue provocò perplessità nel mondo partigiano: inutile sul piano militare, controproducente su quello della propaganda, anche se le cronache dell’epoca raccontano che la partecipazione della cittadinanza al funerale di Gentile fu alquanto scarsa. Ma i tempi cambiano, e non è detto che l’attuale maggioranza non stia pensando a una beatificazione di Gentile nell’ottantesimo dalla morte, in calendario tra pochi mesi.

 

di Francesco Mandarano

 

Se ci tenete ai Valori dell’Antifascismo dovreste prendere un’iniziativa contro il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano. Egli negli anni scorsi ha scritto, assieme a Vittorio Feltri, il libro Una Repubblica senza Patria, Rizzoli Editore. In tale libro sostiene la tesi che l’Italia non sarebbe più una Nazione dall’8 settembre 1943, in quanto avrebbe commesso un “tradimento” ai danni di Hitler, firmando l’Armistizio con gli Angloamericani.

    Lasciando da parte ogni ulteriore commento su questa teoria errata e inaccettabile, occorre tener fermo al fatto che l’Italia nel 1943 non era più in grado di continuare la guerra.

    Ma nello stesso libro c’è qualcosa di molto più grave dal punto di vista etico. Sangiuliano sostiene che Giovanni Gentile voleva la “Pacificazione degli Italiani”, tesi che egli sostiene estrapolando la seguente frase da un articolo di Gentile (recante il titolo Ricostruire e pubblicato sul “Corriere della Sera” del 28/12/1943), riportando queste parole:

 

«Bisogno di concordia degli animi, rinvio di tutto quello che può dividere, cessazione delle lotte…».

 

La citazione di Sangiuliano termina a questo punto: “cessazione delle lotte”. Fu Gentile un pacifista? Nel testo originario lo scritto prosegue in questi termini:

 

«…cessazione delle lotte, tranne quella vitale contro i sobillatori, i traditori, venduti o in buona fede, ma sadicamente ebbri di sterminio».

 

Questo contenuto esplicitamente anti-resistenziale è l’enunciato reale e concreto redatto da Giovanni Gentile. Senza contare che il filosofo, con precisazione apparsa sul “Corriere della Sera” del 16 gennaio 1944, rincarò la dose contro i Partigiani, sostenendo che la lotta nei loro confronti era giusta e necessaria. Perché con i Partigiani non era possibile alcuna pace né alcun compromesso.

    Stando così le cose, c’è da sottolineare che Gennaro Sangiuliano ha manipolato il testo originale di Gentile, mettendo un punto fermo dove c’era semplicemente una virgola e facendo sparire il seguito dello scritto gentiliano, nel quale i Partigiani venivano considerati come «traditori (…) sadicamente ebbri di sterminio».

    Dato che una virgola e un punto possono parere quantità trascurabili, è bene precisare che non siamo nell’ambito della libera interpretazione di un testo, bensì nell’area di una vera e propria manipolazione, cioè stravolgimento dei concetti contenuti. Perché si tende a far apparire sostanzialmente pacifista una posizione come quella del filosofo Gentile, che punta invece a ridefinire l’azione bellica fascista in direzione di una vera e propria guerra civile per l’eliminazione dei Partigiani, presentati come “sadicamente ebbri di sterminio”.

    Occorrerebbe chiedere le dimissioni di Gennaro Sangiuliano dal governo Meloni. Infatti, la sua operazione è moralmente riprovevole, tanto più che egli è Ministro della Cultura.

    D’altro canto la conseguenza voluta da Sangiuliano è verosimilmente duplice: da un lato accreditare il filosofo Giovanni Gentile come “Pacificatore” degli Italiani, cosa assolutamente non vera, e dall’altro lato discreditare i Partigiani come “vigliacchi e assassini”, a leggere il pensatore seguace di Mussolini.

 

Gentile con Mussolini

 

La sfida gentiliana venne raccolta nelle file della Resistenza fiorentina dai Gruppi di Azione Patriottica (GAP), che decretarono ed eseguirono la condanna capitale del filosofo.

    Questo nodo non rappresenta un problema meramente storico-interpretativo, perché l’anno prossimo (questo io prevedo) il Governo Meloni prenderà spunto dall’ottantesimo anniversario della morte di Giovanni Gentile, avvenuta il 15 aprile 1944, per rendergli omaggio nei modi più vari e sperticati. Al fine evidente di riabilitare ulteriormente la storia della destra italiana. E scorreranno fiumi e fiumi d’inchiostro in onore del “grande italiano”, quando egli fu, direi, un servo di Mussolini e di Hitler.

       

                     

L’Avvenire dei lavoratori

EDITRICE SOCIALISTA FONDATA NEL 1897

 

L’Avvenire dei lavoratori è parte della Società Cooperativa Italiana Zurigo, storico istituto che opera in emigra­zione senza fini di lucro e che nel triennio 1941-1944 fu sede del “Centro estero socialista”. Fondato nel 1897 dalla federazione estera del Partito Socialista Italiano e dall’Unione Sindacale Svizzera come organo di stampa per le nascenti organizzazioni operaie all’estero, L’ADL ha preso parte attiva al movimento pacifista durante la Prima guerra mon­diale; durante il ventennio fascista ha ospitato in co-edizione l’Avanti! garantendo la stampa e la distribuzione dei materiali elaborati dal Centro estero socialista in opposizione alla dittatura e a sostegno della Resistenza. Nel secondo Dopoguerra L’ADL ha iniziato una nuova, lunga battaglia per l’integrazione dei mi­gran­ti, contro la xenofobia e per la dignità della persona umana. Dal 1996, in controtendenza rispetto all’eclissi della sinistra italiana, diamo il nostro contributo alla salvaguardia di un patrimonio ideale che appar­tiene a tutti.

 

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