L’ADL del 6 aprile 2023

L’Avvenire dei lavoratori

6 aprile 2023 – e-Settimanale della più antica testata della sinistra italiana

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Organo della F.S.I.S., Centro socialista italiano all’estero, fondato nel 1894 / Direttore: Andrea Ermano

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Arrivederci al 20 aprile

 

La Newsletter dell’ADL inizia oggi la consueta pausa pasquale.

A tutte le lettrici e a tutti i lettori un grande Grazie per averci seguiti fin qui e i nostri più fervidi auguri per le ormai imminenti Festività pasquali!

 

Riprenderemo le trasmissioni giovedì 20 aprile 2023.

 

La red dell’ADL

 

      

           

Politica

 

IL NUOVO ORDINE MONDIALE

 

La guerra è tornata e sembra che possa tornare ancora con un coinvolgimen­to ben più ampio rispetto a quello dovuto all’aggressione contro l’Ucraina da parte della Russia. Sempre più il conflitto in atto sembra predisporre il motivo di un maggiore tragico confronto armato al di là dello “specifico” russo-ucrai­no. La visita di Xi Jinping a Mosca lo ha messo sul tavolo.

 

di Paolo Bagnoli

 

La definizione di un nuovo ordine mondiale è oramai al primo posto dell’agenda internazionale. Come drammaticamente ci insegna la storia, i nuovi ordini mondiali, da che mondo è mondo, si realizzano dopo un conflitto tra le parti in causa. Non averlo tenuto presente alla caduta del comunismo è uno di quegli errori che potremmo pagare caro: sicuramente, è stato un errore compiuto dall’Occidente.

    Si è superficialmente pensato che, uscita di scena una delle più terribili dittature che il mondo abbia conosciuto, finalmente la democrazia, con i suoi buoni principi e i suoi valori, l’avesse avuta vinta una volta per tutte; che il mercato globalizzato ne costituisse l’emblema; che l’evoluzione del mondo verso la libertà fosse oramai inarrestabile.

    Si è trattato di un peccato di tragica superficialità che non ha tenuto conto, da un lato, della complessità del quadro mondiale e, dall’altro, che il comunismo sovietico è caduto sconfitto non dalla democrazia occidentale, ma non propria autodissoluzione. L’Occidente è stato a guardare. Tale atteggiamento – in un momento nel quale gli strumenti atlantici di difesa erano in fase di stanca – ha acceso la follia strategica di Putin, spinto a rilanciare un disegno da sempre presente nello spirito di chi esercita il potere russo: fare della Russia la potenza preminente su un continente europeo geopoliticamente considerato estendersi in ampiezza dagli Urali all’Atlantico.

    L’attacco all’Ucraina, di conseguenza, ha rappresentato un passo quasi “doveroso” per impedire che, quanto ritenuto in ogni modo inscindibile dalla Russia, scivolasse verso il versante occidentale. Mosca, in altri termini, ha inteso vietare che un luogo da sempre tutto “dentro” lo spirito culturale slavo e una concezione orientale del potere potesse divenire “altro”. A fronte di ciò l’Occidente si è mobilitato; gli Stati Uniti in testa, l’Europa al fianco, la Nato attore di sintesi e di prima linea. Lo spettro che lo scontro possa evolvere verso l’impiego delle armi nucleari, più che una deterrenza, pare un rischio concreto. Anche perché di ogni guerra si sa come inizia e mai come termina.

    In Ucraina si gioca, quindi, una partita di grande portata. Fino a ora la Cina ha tenuto un atteggiamento di cautela. Il fatto che non abbia inviato armi a Mosca ne è la dimostrazione, ma politicamente è scesa ufficialmente in campo dicendo cosa persegue: un nuovo ordine mondiale.

    Quello uscito dal secondo conflitto mondiale è andato in crisi e – poiché, per una via o per l’altra, a un nuovo ordine prima o poi si arriverà, – è chiaro che Pechino non lascerà che sia la Russia a fare da controparte agli Stati Uniti.

   Hanno ragione coloro che sostengono che se Cina e Usa trovano un accordo la guerra finisce. Xi, tuttavia, non può permettersi un Putin trionfatore, ma nemmeno un Putin sconfitto. E dunque rimane un rebus quale possa essere il punto di caduta. Non ci sarebbe da meravigliarsi se il notorio pragmatismo cinese riuscisse a individuare una ipotesi di soluzione su cui convenire, essendo implicito che la Russia, partita per egemonizzare l’Europa, sia di fatto sotto la tutela cinese.

 

 

Il nuovo ordine non può giocarsi a tre. Ma potrebbe giocarsi a quattro, se l’Europa fosse nelle condizioni di rappresentare un interlocutore capace, nell’ambito dell’area occidentale, che non è in discussione, di proporsi come protagonista politico del riassetto mondiale. Così, però, non è. L’Europa è a ciò impossibilitata avendo rinunciato a perseguire un grande disegno. Passi avanti rispetto agli esordi ne ha compiuti, rimanendo, però, ben lontana dalla conformazione politica che la potrebbe mettere nelle condizioni di parlare a voce alta, politicamente autonoma e autorevole.

    Di conseguenza, ipotizzando un nuovo ordine mondiale fondato sui pilastri rappresentati dalla Cina e dagli Usa, ciò significa che – come la Russia sarà di fatto subalterna alla prima – l’Europa lo sarà ai secondi.

    La Cina, temendo di essere dominata dagli Usa, ha iniziato con protagonismo assai attivo un’opera di penetrazione politica e anzitutto economica – gli affari sono sempre al primo posto – in diversificate aree del mondo. Questo accade in Medio Oriente con l’accordo tra Teheran e Riad cui dovrebbe seguire entro l’anno il summit con i Paesi del Golfo. Con l’Iran, poi, si sono appena concluse, partecipe anche la Russia, esercitazioni militari congiunte. Dopodiché Teheran è stata ammessa nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai; anche qui Mosca è presente e sta altresì valutando l’idea di farci entrare l’Arabia Saudita. l di là dell’aspetto del partenariato economico, la Cina si sta così configurando come partner di sicurezza nella regione centro-asiatica pure per quelli Stati, già sovietici, che guardano a Mosca con sempre minor fiducia.

    Lo fa soprattutto in Africa. Negli ultimi anni ha elargito a vari Paesi più di 160 miliardi di dollari; un po’ dappertutto società cinesi hanno acquistato miniere di litio, praticamente tutte quelle dello Zimbabwe come pure quelle d’oro nella Repubblica Centroafricana ove anche la presenza post-sovietica è piuttosto massiccia.

    Fuori dall’Africa, nel Sudest asiatico, continua a investire in Pakistan e corteggia l’Indonesia per la sua posizione strategica, rivaleggiando con gli Usa. Dallo Stretto di Malacca passa, infatti, gran parte delle forniture energetiche della Cina.

    Nell’America latina, da tempo, l’Argentina è coinvolta nella “Via della Seta”. La Cina sta per vendere a Buenos Aires aerei caccia; Lula sta per recarsi a Pechino, primo partner d’affari del Brasile. Inoltre, Xi ha provocato la rottura dei rapporti diplomatici dell’Honduras con Taiwan così come aveva fatto con El Salvador, Panama e Nicaragua. Insomma, dove arriva, porta l’idea che non esiste solo una modernizzazione di tipo occidentale, ma che quella cinese ne rappresenti una forma ben più avanzata; implicando che non esista, cioè, un modello unico – quello americano – ma anche uno cinese.

    In Africa, non va dimenticato, quanto forte sia pure il protagonismo russo: terreno adatto per impostare il nuovo ordine mondiale. In Africa, Cina e Russia procedono affiancate; per esempio, qualche mese fa, la flotta del Sud Africa ha svolto esercitazioni con la marina russa e quella cinese. La Russia, avvalendosi dei vecchi legami nati al tempo dell’Unione Sovietica, ha recuperato uno spazio che lega Libia, Mali, Burkina Faso e Sudan; si sta muovendo verso la Costa d’Avorio e spera di riuscire a penetrare in Ciad. Basta guardare una carta geografica per capire che, se il disegno si compisse, i russi potrebbero controllare, spezzandolo in due, il continente africano dal Mar Rosso fino al Golfo di Guinea.

    Si è detto della Cina e della Russia in Africa ove agiscono senza danneggiarsi a vicenda; però, se si pensa che i cinesi investono grandi somme di denaro in Etiopia, Kenya e Angola si comprende che anche in questo continente il nuovo ordine mondiale ha la stessa postura che Xi propone in generale; nel caso africano tramite un nuovo colonialismo.

    Una partita complessa per gli Usa; la Nato, a seguito della guerra, si è certamente rafforzata e il fronte comune con l’Unione Europea e i Paesi alleati del Pacifico (quali Giappone, Corea del Sud e Australia) è ben saldo, tuttavia l’aspetto militare ci pare prevalga tanto su quello politico quanto su quello economico, mai così intrecciati come in questo momento.

    Ci domandiamo se non sarebbe il caso che l’insieme dei Paesi liberal-democratici aprissero un serio confronto per rimodulare il concetto stesso di Occidente non considerandolo solo in termini di difesa militare, ma avendo a riferimento centrale di riflessione la sostanza dell’essere democratici oggi. L’operazione – vista la crisi in cui versa la democrazia nei Paesi liberi ed economicamente sviluppati – sarebbe assai utile a ripensare ciò che implica la “pace” quale concetto politico.

    Senza grandi idee e alti ideali il mondo non si cambia. Se si dà per scontato che siano i fatti ad acchiappare il pensiero, la politica si riduce ad affarismo, mercatismo, manipolazione e sfruttamento. In tal caso si finisce per riconfermare la tragedia della storia per cui i nuovi ordini del mondo scaturiscono solo dai conflitti. Oggi, però, a differenza del passato, disponendo delle armi nucleari l’uomo, prima del nemico, distrugge sé stesso.

 

Da La Rivoluzione Democratica

www.rivoluzionedemocratica.it/

      

    

SPIGOLATURE 

 

TRUMP e il fastidio

Rep. sottotraccia

 

di Renzo Balmelli 

 

CIRCO. Che succede con Trump, scaltro alchimista delle provocazioni istituzionali. Dopo l’udienza sull’incriminazione, si capiva che era deluso: niente show, niente manette, fans a ranghi ridotti. Sulla sua consueta tracotanza sembra avere pesato una giornata senza precedenti nella storia americana. Era prevedibile. Se il tycoon immaginava di replicare l’indecente assalto al Campidoglio di due anni fa, New York, che non ama le pagliacciate, glielo ha negato.

 

Trump al Trump Tower (Bryan Woolston/AP)

 

La città, ha detto il sindaco Adams, non è luogo per rabbia mal riposta. E a vuoto sono andati pure i tentativi delle gazzette nostrane, che tifano per lui, di farlo passare per un martire della sinistra bieca e ostile. In questo momento, d’altronde, con la guerra alle porte, gli striscianti ricatti nucleari di Putin che minacciano tutti noi, e la crisi finanziaria che fa piangere milioni di piccoli azionisti, l’America ha ben altro di cui preoccuparsi. Le squallide vicende di alcova e delle “olgettine” Made in USA, non valgono un uragano insurrezionale. Certo, a dispetto del mancato circo mediatico, Trump, tenterà di trasformare tutta la storia in un’arma elettorale. Ne ha la facoltà. Tuttavia coi sondaggi in larga misura favorevoli all’incriminazione, e oltretutto col fastidio che sottotraccia serpeggia nei ranghi repubblicani, dove cominciano a ritenerlo una figura ingombrante, gli risulterà molto più arduo piegare gli eventi al suo volere.

 

SIGILLO. Che cosa avrà mai preso alle finlandesi e ai finlandesi di dare il benservito a Sanna Marin, la vivace premier socialista molto popolare all’estero, forse un po’ meno in patria? Tra Covid, frontiere a ridosso della Russia aggressiva e spinte al cambiamento, il suo tempo al potere è stato tutto fuorché semplice sebbene gestito abilmente. Il sigillo che corona la carriera della più giovane premier giunta ai vertici del Paese, è la storica svolta per l’ingresso della Finlandia nella NATO che porta la sua firma. Un exploit che rassicura la popolazione nei confronti del bellicoso vicino di casa, ma che però, ironia della sorte, non le è valsa la rielezione. Ora la Marin cede lo scettro alla destra che si autodefinisce “moderata”, ma non solo. La sconfitta della leader di sinistra soprattutto spalanca le porte all’ultra destra di Riikka Purra, a sua volta giovane, vistosamente euroscettica e gelida sui migranti. In quest’ottica l’esito delle elezioni parlamentari a Helsinki cambia non solo l’assetto del Paese scandinavo, ma rappresenta un salto al buio della politica europea. Il verdetto delle urne finniche è un segnale che pone pesanti ipoteche per capire chi sono e quanto pesano le nuove destre in Europa. Un segnale da prendere molto sul serio. Siano esse sovraniste, nostalgiche, conservatrici o estremiste, queste formazioni compongono uno scenario che punta a ribaltare gli equilibri nella Ue. E non certo nel solco degli ideali promossi dai padri fondatori.

 

INTEGRITÀ. Dopo le sconcertanti dichiarazioni su Via Rasella e le Fosse Ardeatine, sono in molti a chiedersi quale sia il senso di Ignazio La Russa per la Storia. Piuttosto misero, vien da credere. Ma non basta. Difatti se tali giudizi denigratori sulla Resistenza e i partigiani arrivano da un rappresentante delle Istituzioni che dal suo Ufficio è chiamato a tutelare nella loro integrità morale e culturale, ciò ne rende il significato ancora più grave. Per inquadrare l’accaduto meglio delle parole in questo caso servirebbero gli esempi. Diciamo così: il busto di Mussolini esibito in bella mostra non ha il medesimo significato di una pia immagine votiva portata in ricordo da un pellegrinaggio nei luoghi santi. A questo punto sarebbe interessante, oltre che necessario, sapere come intende muoversi la maggioranza, finora silente, nei confronti della seconda carica dello Stato resasi protagonista di un avvilente falso storico. Con colpi di questo tipo si cambia il passato, si stravolge il presente e si ipoteca il futuro.

 

EQUIVOCI. Voltarsi all’indietro e riscrivere la storia – è un bel po’ che i nostalgici ci provano. È un esercizio pericoloso, molto pericoloso. Finora i tentativi di imporre insensate chiavi di lettura del tragico ventennio sono sempre andati a vuoto. Ma per quanto ancora? Negli ultimi tempi stiamo assistendo alla forte rinascita di forme sempre più marcate di devianze di stampo revisionista che suscitano parecchie inquietudini. Ora la grande prova per la coalizione di casa a Palazzo Chigi e per Giorgia Meloni sarà il prossimo 25 aprile, Festa della Liberazione. Quel giorno sarà fondamentale per indicare la retta via e prendere le distanze in modo deciso da chi si diletta a seminare zizzania con mire inconfessabili. Un’occasione di fugare gli equivoci. Mancarla sarebbe un errore capitale. Il revisionismo finirebbe fatalmente per alterare il senso della Storia su una delle pagine più sanguinose del passato. Se non si fermassero, qualsiasi attenuante, qualsiasi scusa, qualsiasi giustificazione sarebbe solamente sterile propaganda.

    

 

L’Avvenire dei lavoratori

 

Visita il BLOG dell’ADL curato da Tiziana Stoto (KOLORATO)

     

 

economia

 

Crisi bancarie Usa

Le responsabilità dei controllori

 

Serve chiarezza. Dietro le recenti bancarotte negli Usa ci sono altri motivi di preoccupazione. In primo luogo il fallimento delle autorità di sorveglianza, a cominciare dalla Federal Reserve.

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all’economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

Il loro mancato intervento, a nostro avviso, è dovuto al fatto che esse erano pienamente consapevoli che le loro politiche monetarie altalenanti, interessi zero prima e aumento dei tassi poi, avrebbero messo sottosopra il sistema bancario. Hanno ritenuto, erroneamente, che astenersi fosse la seconda tra le peggiori possibilità. La prima sarebbe stata continuare con le politiche di poderose iniezioni di liquidità fino a far esplodere la bolla.

    Il governo e le autorità bancarie, quindi, non sono stati colti di sorpresa. Erano pronti a nuovi interventi di salvataggio dell’intero sistema. Meglio intervenire dopo il fallimento di una banca regionale che di una too big to fail. C’è stato, infatti, un barrage di interventi. Si è creata una Bank Bailout Facility attraverso la quale il governo concede dei prestiti alle banche. La Fed ha annunciato un “discount window”, uno sportello, dove attingere a prestiti di emergenza a basso costo. Sotto la guida della Fed e del Tesoro, sei grandi banche, JP Morgan, Wells, Citi, Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley, si sono accordate per mettere a disposizione 30 miliardi di dollari per la First Republic Bank. Non sono bastati, però, a fermare il crollo. Anche la Federal Deposit Insurance Corporation, l’agenzia di protezione finanziaria, è entrata in campo per garantire i depositi fino a 250.000 dollari. Si tenga presente, però, che il suo fondo coprirebbe soltanto il 2% dei 9.600 miliardi di dollari di depositi assicurati.

    È in atto anche una narrazione che cerca di distogliere l’attenzione dalle banche too big. Si parla insistentemente dei rischi di insolvenza delle banche regionali e delle cosiddette saving and loans banks, quelle che raccolgono i risparmi e poi concedono prestiti alle imprese locali e alle famiglie. Indubbiamente non si possono negare le loro difficoltà attuali, create proprio dagli andamenti dei tassi d’interesse. Si ricorderà che una crisi simile, ma in una situazione di differente gravità sistemica, era avvenuta già negli anni ottanta, sempre per effetto della crescita vertiginosa dei tassi d’interesse da parte della Fed.

    È comunque da ingenui ritenere che le banche regionali siano delle entità totalmente indipendenti rispetto alle 20 maggiori banche Usa, cosiddette, sistemiche. Secondo JP Morgan nell’ultimo anno le banche più piccole avrebbero perso 1.100 miliardi di dollari in depositi che sono stati trasferiti in quelle più grandi.

    C’è anche un’altra narrazione che vorrebbe le banche europee, e non quelle americane, essere nell’occhio del ciclone. Certamente, dopo la crisi del Credit Suisse e le gravi fibrillazioni della Deutsche Bank (DB), non si può negare che il sistema bancario europeo sia in crescente difficoltà.

    Noi non ci siamo mai stancati di denunciare i comportamenti rischiosi di DB, superstar dei derivati otc. Ma non si può nemmeno dimenticare che il sistema bancario europeo sia entrato in acque agitate proprio per aver copiato i metodi speculativi di quello americano e della City inglese.

    E’ doveroso anche notare il macroscopico errore delle agenzie di rating, le note imprese americane private. Fino al giorno prima del fallimento della Silicon Valley Bank, Moody’s le garantiva il voto di A3 e Standard & Poor’s (S&P) le dava un rating un po’ inferiore di Bbb. Certamente erano lontani dalle triple A elargite a piene mani prima della bancarotta della Lehman Brothers. I titoli della Svb, però, erano considerati “investment grade”, cioè degni di investimento e perciò non speculativi.

    Si noti che, anche rispetto al fallimento della First Republic Bank, le agenzie di rating S&P e Fitch hanno inserito la banca tra le imprese “junk”, spazzatura, solo dopo gli interventi di salvataggio.

    Nelle prospettive bancarie globali per il 2023, la S&P afferma che il settore bancario statunitense è in buona salute e che il rischio è in calo. Per la Moody’s le prospettive sarebbero stabili, sebbene avvertisse venti contrari in un’economia in rallentamento.

    Si tratta di gravi sottovalutazioni, a discapito dei risparmiatori e degli onesti investitori. Si persegue un comportamento, a dir poco incompetente e inadeguato, già emerso prepotentemente nel 2001 alla vigilia del fallimento della Enron, il gigante americano dell’energia, e poi nella Grande Crisi del 2008.

    Dal 2001 il Congresso americano ha portato avanti varie iniziative di riforma che, però, non hanno indotto le agenzie di rating a un comportamento più corretto.

    Si dovrebbe tenerlo presente quando esse pontificheranno sulla situazione economica e finanziaria dell’Italia. In passato, purtroppo, si è sempre tenuto un atteggiamento troppo supino.

       

       

da >>> TERZO GIORNALE *)

https://www.terzogiornale.it/

 

Testate all’asta

da “la Repubblica” a “l’Unità”

 

Il saccheggio del patrimonio editoriale di una sinistra senza voce

 

di Michele Mezza

 

Le spade stanno appese e i foderi abballano. È un vecchio proverbio spagnolesco, in uso nell’entroterra napoletano, che spiega bene cosa stia accadendo a sinistra oggi. Partiti e sindacati in silenzio, i giornali in grande movimento. Infatti, mentre Pd e Cgil non danno segni di permanenza in vita – da giorni non si raccolgono interventi o dichiarazioni, nonostante l’alternarsi di circostanze non ordinarie, come le elezioni in Friuli, l’avvitamento della guerra in Ucraina, le manovre fiscali del governo, e le capriole attorno a ChatGPT (vedi qui) –, si assiste a un gioco delle ombre allarmante sullo scenario mediatico. Segno certo di un’inversione dei ruoli fra mandanti e mandati, fra struttura e sovrastruttura – avremmo detto in un tempo assai lontano –, ma soprattutto anche l’effetto di un rimpicciolirsi del conflitto pubblico.

    Da una parte, si assiste a uno stupefacente gioco delle sedie nel piccolo ma ambizioso circolo Pickwick del gruppo editoriale Romeo, un immobiliarista napoletano dalle alterne vicende giudiziarie che, dopo avere tallonato il Pd, prova a sostituirlo. Romeo è un dalemiano di vecchia osservanza e permanente comportamento, che, a conferma della limpida logica della sua bussola, arruola Matteo Renzi come testimonial del “Riformista”: un quotidiano ormai decaduto, in cui solo l’irrilevanza della diffusione autorizza la spregiudicatezza dei comportamenti. Quel foglio – guidato prima da Antonio Polito e dopo da Emanuele Macaluso, fin quasi alla morte, su una linea di garantismo realmente riformista, che gli aveva assicurato un degno spessore di opinione – è passato sotto la disinvolta gerenza di Piero Sansonetti, ex ingraiano rampante del giornalismo targato Pci, che ora sta resuscitando nientepopodimeno che “l’Unità”, entro la metà di aprile nuovamente in edicola, dopo essere stata chiusa nel 2014 dallo stesso Renzi, che riappare oggi nella compagine editoriale che rilancia quel giornale. Il labirinto psicologico diventa così perfetto: ognuno fa esattamente il contrario di quello per cui è noto, rovesciando valori e immagini.

    Infatti Sansonetti, da oppositore di Renzi nella liquidazione del giornale che lui voleva attestato su un’opposizione intransigente alla destra di Berlusconi, si trova oggi a essere un divo delle televisioni Mediaset, a veleggiare lungo il crinale di un garantismo a ogni costo, condiviso dagli avvocati di grandi nomi di mafia e camorra. Mentre Renzi, da rottamatore dei vecchi arnesi del Pci, diventa ora collaboratore di un editore dalemiano, per riempire uno spazio elettorale di confine fra la dissoluzione del vecchio re delle televisioni private e la nuova leadership del Pd, che pare non sbocciare.

(continua sul sito)

 

*) Terzo Giornale – La Fondazione per la critica sociale e un gruppo di amici giornalisti hanno aperto questo sito con aggiornamenti quotidiani (dal lunedì al venerdì) per fornire non un “primo” giornale su cui leggere le notizie, non un “secondo”, come si usa definire un organo di commenti e approfondimenti, ma un giornale “terzo” che intende offrire un orientamento improntato a una rigorosa selezione dei temi e degli argomenti, già “tagliata” in partenza nel senso di un socialismo ecologista. >>> vai al sito

       

             

L’Avvenire dei lavoratori – Voci su Wikipedia :

(ADL in italiano) https://it.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_lavoratori

(ADL in inglese) https://en.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_Lavoratori

(ADL in spagnolo) https://es.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_Lavoratori

(Coopi in italiano) http://it.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo

(Coopi in inglese) http://en.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo

(Coopi in tedesco) http://de.wikipedia.org/wiki/Cooperativa_italiana

 

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LAVORO E DIRITTI

a cura di www.collettiva.it

 

Appalti: Un codice criminogeno

 

Per Bruno Giordano, magistrato di Cassazione, la normativa “ridurrà la sicurezza sul lavoro e rischia di alimentare l’economia illegale”. Fino al 2017 ha insegnato Diritto della sicurezza del lavoro presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano. Fino a poche settimane fa è stato direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro. Di questo nuovo “Codice dei contratti pubblici”, più conosciuto come Codice degli appalti, voluto da Salvini e varato dal governo Meloni, dà un giudizio netto e preoccupato. Esso metterà a rischio la salute e la sicurezza di lavoratori e lavoratrici, dice il magistrato. E potrebbe innescarsi un circolo criminogeno, dal lavoro nero alla corruzione, passando per l’evasione fiscale. Mentre difficilmente renderà più veloce la realizzazione delle infrastrutture e delle opere del Pnrr.

 

Intervista raccolta da Roberta Lisi 

 

La scorsa settimana il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legislativo che riforma il Codice degli appalti. È stato presentato come lo strumento che semplifica e velocizza.

    Non è affatto detto che la semplificazione corrisponda ad una celerità del procedimento di aggiudicazione. Perché semplificare, così come previsto dalla norma, vuol dire anche allargare le maglie per la selezione dei contraenti.

    Nella valutazione di un contratto pubblico o di un appalto la velocità della realizzazione dell’opera può essere l’unico criterio o il criterio principale di valutazione?

    Sicuramente no, è importante fare un’opera ma realizzarla in sicurezza. La cosiddetta celerità deve essere compatibile innanzitutto con il rispetto prioritario della tutela della vita e della sicurezza di chi lavora. A me non interessa che un’opera sia fatta subito, a me interessa che per fare quell’opera non muoia nessuno. Semplificazione è una formula generica, attrattiva, evocativa, ma non è esaustiva della correttezza di un procedimento amministrativo. Cioè la semplicità, come diceva Bertolt Brecht, è difficile a farsi. Quindi, che la semplificazione significhi automaticamente fare le cose bene e velocemente non è assolutamente vero.

    Veniamo al tema della sicurezza, cosa non va da questo punto di vista?

    A me pare che il tema della sicurezza e della salute di lavoratori e lavoratrici non sia affatto considerato. L’aumento della soglia per l’affidamento diretto comporta, ovviamente, la possibilità di partecipare a un appalto anche senza avere dei dipendenti e delle proprie attrezzature, ma servendosi dei subappalti per realizzare l’opera. I subappalti sono il tallone di Achille degli incidenti e delle morti sul lavoro. Laddove c’è un subappalto, si mira a un risparmio sui costi, soprattutto sul costo del lavoro, altrimenti non si giustifica l’idea di una frammentazione dell’opera in tanti spezzoni. E dove si risparmia sul costo del lavoro, si risparmia sui costi della sicurezza a discapito della tutela della salute e della vita. I subappalti da sempre sono stati il luogo in cui il piccolo e medio imprenditore, pur di partecipare a un’opera, risparmia. Il primo risparmio avviene nel lavoro nero, con il lavoro irregolare e con la violazione delle norme in materia di sicurezza. Aggiungo, esistono delle norme che impongono la verifica dei costi nei ribassi d’asta proprio per evitare di concorrere diminuendo le tutele dei lavoratori, non sono consentite riduzioni per la sicurezza. Negli affidamenti diretti questi costi ovviamente non vengono nemmeno valutati da nessuno, perché non c’è una gara. Dove c’è una gara si valutano e si vanno a comparare i costi di ciascuna ditta partecipante. Quando l’amministratore affida direttamente a una determinata ditta, ovviamente non compara un bel nulla. E come ormai si sa, questo Codice eleva e di molto la soglia per gli affidamenti diretti.

    Siamo un Paese tristemente noto per il tasso di corruzione, di evasione fiscale, di economia illegale inquinata dalle varie mafie che attraversano il territorio da nord a sud. Questo nuovo Codice aiuta a prevenire infiltrazioni, a suo giudizio, oppure crea dei varchi?

    Crea un enorme varco alla corruzione. L’affidamento diretto consente che i soldi si fermino in mano all’appaltatore, che poi li distribuisce ai vari subappaltatori. Quindi c’è chi ha i soldi, i committenti che “scelgono” a chi affidare i lavori, e questo meccanismo induce indubbiamente ad avere dei rapporti privilegiati con l’amministrazione attraverso corsie preferenziali che si chiamano corruzione o concussione. Ovviamente non dobbiamo confondere la corruzione necessariamente con gli interessi della criminalità organizzata. Nelle grandi opere la criminalità organizzata è presente soprattutto nei subappalti, per esempio movimentazione terra, trasporti, logistica eccetera. Di conseguenza, questo Codice rischia di essere un fattore criminogeno, cioè rischia di attivare gli appetiti di imprenditori disponibili a corrompere pur di conseguire il contratto di appalto. E poi ad allearsi, attraverso la filiera del subappalto, con la criminalità mafiosa. In tutto questo è difficile intravedere un rispetto delle norme in materia di fedeltà fiscale e legalità del lavoro. Dove c’è corruzione ci sono fondi neri, per esserci fondi neri c’è l’evasione fiscale, ci sono fatture false, c’è il pagamento del lavoro in nero. Quindi il circuito dell’illegalità parte dal lavoro nero e finisce alla corruzione e viceversa. È un circolo criminoso, non solo vizioso, che alimenta tutti gli anelli di questa catena.

 

(continua la lettura sul sito)

      

           

Da Avanti! online

www.avantionline.it/

 

Stati Generali del socialismo

Maraio: “Assise prima dell’estate”

 

“A Roma un’altra tappa significativa sulla strada che stiamo costruendo per gli Stati Generali del socialismo italiano. Abbiamo raccolto le adesioni di importanti realtà e personalità del mondo socialista, abbiamo avviato positive interlocuzioni con il mondo laico e ambientalista, con quello del riformismo civico che è lontano da pulsioni più populiste. Prima dell’estate convocheremo una grande assise per lanciare i temi sui quali costruiremo un percorso per la comunità riformista e, più in generale, per il Paese”. Così il segretario del Psi Enzo Maraio sul proprio profilo Facebook.

 

Il segretario del Psi Enzo Maraio

       

                         

Da “Anbamed, notizie dal Sud Est del

Mediterraneo” riceviamo e pubblichiamo

   

la Turchia contro

la scrittrice Pinar Selek

 

Il tribunale di Istanbul ha rinviato a settembre il dibattimento per il processo contro la scrittrice Pinar Selek.

 

Il giudice competente ha mantenuto in piedi il mandato di cattura internazionale nei suoi confronti. Sociologa, antimilitarista e militante, Selek è accusata di una strage terroristica che non ha mai avuto luogo.

    Per il suo lavoro di sociologa ha condotto ricerche sulle minoranze etniche in Turchia, armeni e curdi. Per questo è stata accusata di rapporti con il PKK, partito di Lavoratori del Kurdistan. La storia del suo arresto risale al 1998, dopo una sua ricerca condotta intervistando alcuni combattenti curdi.

    È stata torturata per ottenere i nomi degli intervistati, ma nell’impossibilità di condannarla per via giudiziaria, le forze di sicurezza l’hanno accusata di essere l’autrice di un incendio, avvenuto qualche giorno prima del suo arresto nel bazar di Istanbul, che aveva causato 7 morti.

    In Tribunale è stata assolta, perché è stato dimostrato che l’incendio era stato causato dallo scoppio di una bombola di gas difettosa e non un atto terroristico. Selek è stata rilasciata su cauzione nel 2000 ed è stata assolta dall’accusa di terrorismo per ben 4 volte.

    Nel 2009, la ricercatrice si è rifugiata in Francia. Lo scorso gennaio, in piena campagna elettorale, la cassazione ha riaperto di nuovo il suo caso annullando l’assoluzione ed emanando il mandato internazionale di arresto.

 

(Leggi il comunicato dei collettivi di solidarietà; in francese).

  

        

Dalla Fondazione Rosselli di Firenze

http://www.rosselli.org/

 

Vita straordinaria

di una grande donna

 

Recensione di: Silvia Ballestra, La Sibilla – Vita di Joyce Lussu, Editori Laterza, Bari-Roma 2022. Il suo nome completo era Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, coniugata Belluigi e poi Lussu. Ma la sua vita fu ben più complessa e ricca del suo stesso nome completo…

 

di Antonio Comerci

 

Joyce Lussu (Firenze, 1912 – Roma, 1998), partigiana, medaglia d’argento al valor militare, capitano nelle brigate Giustizia e Libertà, scrittrice, traduttrice e poetessa, sorella dello storico e antifascista Max Salvadori e moglie in seconde nozze con Emilio Lussu, leggendario capitano della Brigata Sassari nella Prima guerra mondiale, scrittore e fra i fondatori del Partito d’Azione. Con Lussu ha avuto un figlio, Giovanni. «Laggiù, in una bella casa di campagna tra Porto San Giorgio e Fermo, vive una donna formidabile, saggia e generosa, ricchissima di pensieri, intuizioni, toni, bellezza, forza, argomenti, intelligenza. La mia Joyce, la mia sibilla» questa è la presentazione del libro in quarta di copertina. Parole di Silvia Ballestra, scrittrice, che ha avuto, lei ventunenne, un’intensa frequentazione fin dal 1991 con la Joyce, quasi ottantenne.

    Joyce si racconta alla scrittrice che registra le conversazioni e le pubblica nel 1996 nel libro “Joyce L. Una vita contro”. La biografia “La Sibilla”, che esce ora, allarga e completa quelle conversazioni, fornendo un quadro completo e documentato di una vita straordinaria.

    Dalla scomparsa nel 1998 della Lussu sono usciti libri e sono state fatte commemorazioni e giornate di studio. Silvia Ballestra ci accompagna a rivisitare queste biografie e studi e lo fa, però, con confidenza e leggerezza in continuità con una relazione importante per la sua stessa vita professionale. Una lettura appassionante per scoprire, da chi gli è stata vicina negli ultimi anni di vita, una grande donna.

       

         

Su Radio Radicale

https://www.radioradicale.it/

 

Meglio i diritti civili o i diritti sociali?

 

“Tempi radicali” è il titolo di “L’Italia di Domani”, festival promosso dal quotidiano Domani (seconda giornata) Intervengono: Maria Cecilia Guerra, economista (UniMore), Giorgia Serughetti, filosofa (UniMib), Gianfrancesco Zanetti, giurista (UniMore) Con Giovanna Faggionato.

 

Vedi sul sito di Radio Radicale

         

      

Per Elisa Rodoni-Cavedon

(Vicenza, 1.2.1933 – Zurigo, 23.3.2023)

 

le parole

che contano

 

di Andrea Ermano

 

Non potrei tributare un mio omaggio a Elisa “Lisetta” Rodoni-Cavedon senza prendere le mosse dalla Libreria Italiana, dove la Lisetta – insieme al marito Sandro Rodoni, compagno di mille battaglie, – aveva costruito un “mondo della vita”, una Lebenswelt, per dirla con Husserl. Era un mondo di libri, di colloqui, dialoghi, discorsi e anche silenzi che accompagnavano la concentrata lettura di questo o quel volume. Un mondo che ha animato la vita culturale e la cultura politica dell’Emigrazione Italiana nel Dopoguerra.

   Il mondo della Libreria Italiana di Zurigo apparteneva certo ai grandi intellettuali che l’hanno frequentata (Silone non mancava mai di farci un salto quando passava da Zurigo, e come lui molti altri). Ma apparteneva anche alla gente semplice che andava “dalla Lisetta” in cerca di conforto nel duro spaesamento che sempre consegue all’espatrio come il carro segue i buoi. Perché la Lisetta sapeva capirci tutti così bene, non solo in quanto aveva letto tanti dei libri che esponeva nei suoi scaffali, ma soprattutto perché anche lei era stata “libera di dover andare”. Anche lei aveva dovuto fare le valige dopo che, giovane militante comunista, si era resa rea di “sobillazione” nelle lotte operaie alla Lanerossi di Schio e di Piovene.

    Ora che la Lisetta ci ha lasciato, mentre la Libreria Italiana ha ampiamente superato il traguardo dei sessant’anni, vorrei essere capace di sottolinearlo accuratamente, quel che può aver significato inanellare giorno dopo giorno un impegno di tale incredibile durata e di tanto straordinario spessore. E mi pare minimalismo quel che della sua Libreria ha detto Lisetta stessa: «Ho avuto un piccolo mondo, ma era importante». Parole di grande modestia, che molto le assomigliavano e che giustamente i figli, André e Matteo Rodoni, hanno scelto nel riassumere il percorso esistenziale di loro madre.

    Dopodiché la Libreria Italiana è stata un “mondo”, sì, certo, Ma non “piccolo”, e anzi tanto più grande in quanto, a pensarci, esso rappresentava invece il sogno di una cosa impossibile. Ed ecco un pensiero di Lisetta stessa sulla questione. Si trova in un frammento dal titolo Struttura, datato 13 settembre 1989: «Ci sono cose possibili, quotidiane, previste. / Io credo nelle cose impossibili: esse sono in grado di rivestire l’anima di una struttura di acciaio lucente; certo, essa rivela a volte la fragilità di un fiore di ibisco ma sempre possiede la dignità e la forza dell’albero di araucaria».

    Forse non c’entra, ma mentre scrivo queste righe la parola “emigrazione” un po’ mi ossessiona. Da qualche parte, in una qualche città, in una qualche biblioteca, dovrà pur esserci «un libro che racconti dal di dentro il mondo dell’emigrazione, i motivi che costringono i giovani a partire, i conflitti tra chi resta e chi parte, le difficoltà di integrazione nelle città di arrivo, il razzismo ma anche la conquista della dignità del lavoro». Questo libro esiste e prova ne sia che le parole di cui sopra sono tratte dalla prefazione a Noi lazzaroni di Saverio Strati. Il quale è stato un emigrato in Svizzera, ma, senza dubbio, anche un importante romanziere nella seconda metà del Novecento italiano. Nonché un amico di Lisetta e Sandro Rodoni.

 

Lisetta e Sandro Rodoni

 

Tanto che proprio all’inizio di Noi lazzaroni, romanzo del 1972, si legge: «Mi piace camminare per la città. Più tardi passerò dal bar nella Militaerstrasse, per chiacchierare con qualche amico. Passerò anche dalla Libreria Italiana per comprare un tascabile. Mi terrà compagnia durante le venti ore di corsa folle verso il Sud.» Un bel cammeo (non l’unico) che sta lì a immortalare nel firmamento letterario italiano quel magico negozio zurighese di enciclopedie scolastiche, abbecedari e paperbacks.

    In esergo alla prima pagina di Noi lazzaroni si leggono queste parole debenedettiane: «Un romanzo non può sempre cantare, anzi può benissimo non cantare mai: il suo dovere principale è di informare, purché naturalmente la notizia non rimanga mero documento, ma trasmetta anche con persuasione emotiva il senso di una situazione umana».

    Né saprei tratteggiare per Lisetta un ritratto migliore di questa citazione, parafrasabile nel modo che segue: Una donna non può sempre cantare, anzi può benissimo non cantare mai, ma dovrà parlare con altri e saperli anche ascoltare, badando alle parole che contano, affinché non entrino in un “orecio” per subito uscire dall’altro “orecio”, come amava ripetere la Lisetta trasmettendo sempre la sua coloritura emotiva e umana, talvolta con accento vicentino.

    A proposito di coloriture umane, una volta entrò in Libreria una signora sulla trentina e sussurrò essere lei interessata a un libro… serio. “Ripeto, molto serio”, sottolineò: “Un libro capace di spiegare a una moglie i segreti della vita, come dire, della vita… intima”. Perché, se avesse trovato quel libro, forse sarebbe riuscita a convincere suo marito, a convincerlo… – aggiunse sospesa – “Beh, se ne sapessi di più, mio marito potrebbe risparmiare dei bei soldi che invece spende con le donnine”. Stiamo parlando dell’inizio degli anni Sessanta, quando la vita “intima”, l’igiene, le malattie veneree, le fasi della fertilità, le problematiche della fecondità… erano cose ancora completamente circonfuse di mistero, peccato e ignoranza. E ricordo che alla fine di questo racconto Lisetta, di solito amabilissima, sbottò: “Ma insomma anche noi donne avevamo il diritto di sapere dove sono le ovaie”.

    Grande il mondo della Libreria Italiana! Grande psicologa la Lisetta Rodoni! La quale dal 1961 e per oltre sessant’anni ha saputo affrontare un’infinità e un’infinita varietà di situazioni, problemi, gioie/dolori che solo presso di lei potevano trovare ascolto, consiglio, consolazione e coraggio. Ma – dopo avere lei assistito nella sua Libreria a tutto questo tsunami del popolo emigrante, dopo avere lei ascoltato nella sua Libreria tutta questa inarrestabile marea scrivente e parlante fatta di letterati e poeti e filosofi più o meno eccellenti o gesticolanti – dopo tutto ciò, adesso è giusto che noi ascoltiamo una, almeno una, delle poesie scritte dalla Lisetta stessa. Sì, perché lei scriveva da sempre, si è appreso dopo la morte, mentre su di un fatto tanto centrale della sua esistenza mai l’avevo sentita spendere una sola sillaba in vita. Qui citerò pochi versi di quarantatré anni fa:

 

«aprile 1980

 

E c’è stato anche un tempo remoto,

leggero,

chiaro.

 

Lungo viaggio fatto assieme

sulla strada delle parole

che contano.

 

E così sia.»

       

                   

    

DAI COMPAGNI TICINESI

 

Congratulazioni a Marina

Carobbio per la sua elezione!

 

Festeggiamo la conferma del seggio progressista in Consiglio di Stato, e

per aver riportato, con Marina Carobbio, una donna al Governo ticinese.

 

 

Il risultato che abbiamo ottenuto è al di sotto delle aspettative, ma siamo convinti che il progetto rosso-verde, che unisce la giustizia sociale a quella ambientale per affrontare insieme le emergenze, sia la strada giusta da percorrere. Abbiamo sempre detto che quella con i Verdi non vuole essere un’alleanza meramente elettorale, bensì un progetto politico per dare delle risposte alla precarietà del mondo del lavoro, alla crisi climatica, alle crescenti disuguaglianze e altre problematiche del nostro Cantone. Il prossimo appuntamento sono le elezioni federali, dove l’alleanza ha già portato degli ottimi risultati.

    Vogliamo congratularci di cuore con Marina per la sua elezione in Consiglio di Stato!  Siamo sicuri che farai un ottimo lavoro portando i tuoi valori e le tue competenze in questa nuova avventura.

    Ancora complimenti e auguri di buon lavoro! Grazie mille anche a Boas, Samantha, Nara e Yannick per avere contribuito alla lista Socialisti e Verdi, la vera novità di queste elezioni!

 

Saluti solidali, Laura e Fabrizio 

di News Socialiste – Bellinzona (CH), 3/4/2023

 

Ci associamo! – La red dell’ADL

       

         

L’Avvenire dei lavoratori

EDITRICE SOCIALISTA FONDATA NEL 1897

 

L’Avvenire dei lavoratori è parte della Società Cooperativa Italiana Zurigo, storico istituto che opera in emigra­zione senza fini di lucro e che nel triennio 1941-1944 fu sede del “Centro estero socialista”. Fondato nel 1897 dalla federazione estera del Partito Socialista Italiano e dall’Unione Sindacale Svizzera come organo di stampa per le nascenti organizzazioni operaie all’estero, L’ADL ha preso parte attiva al movimento pacifista durante la Prima guerra mon­diale; durante il ventennio fascista ha ospitato in co-edizione l’Avanti! garantendo la stampa e la distribuzione dei materiali elaborati dal Centro estero socialista in opposizione alla dittatura e a sostegno della Resistenza. Nel secondo Dopoguerra L’ADL ha iniziato una nuova, lunga battaglia per l’integrazione dei mi­gran­ti, contro la xenofobia e per la dignità della persona umana. Dal 1996, in controtendenza rispetto all’eclissi della sinistra italiana, diamo il nostro contributo alla salvaguardia di un patrimonio ideale che appar­tiene a tutti.

 

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