L’ADL del 12 ottobre 2023b

L’Avvenire dei lavoratori

12 ottobre 2023 – e-Settimanale della più antica testata della sinistra italiana

Organo della F.S.I.S., Centro socialista italiano all’estero, fondato nel 1894 / Direttore: Andrea Ermano

Redazione e amministrazione presso la Società Cooperativa Italiana – Casella 8222 – CH 8036 Zurigo

 

sospensione tecnico-logistica delle trasmissioni

Con il presente numero dobbiamo sospendere per qualche settimana le trasmissioni dell’ADL

perché si sono resi necessari alcuni aggiornamenti tecnici e logistici che non ci

sarebbe possibile rinviare, come di consueto, alla pausa natalizia.

A presto! La Red dell’ADL

 

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EDITORIALE

 

Ma PERCHE?!

 

di Andrea Ermano

 

Chi è stato ad “aiutare” Hamas nell’attacco contro Israele? Sembra che Teheran abbia dato l’OK ai palestinesi «in un incontro avvenuto tra emissari del regime iraniano e membri di Hamas lunedì scorso, 2 ottobre, a Beirut», riferisce il Wall Street Journal. Se ne è avuta mezza conferma – secondo la TSI e l’ADN Kronos – per bocca del comandante palestinese Mohammed Deif: «Teheran ci ha aiutato». Ma Teheran tace. E Washington anche.

    Fin qui abbiamo assolto per tre quinti alla regola giornalistica delle “5 W”. Sappiamo infatti il “Che cosa?”, What, il “Dove?”, Where, e il “Quando?”, When. Ma, sulle domande più importanti – il “Chi?”, Who, e il “perché?”, Why, – brancoliamo nel buio. La penna pesa, la tastiera spaventa, la mente e il braccio sono come bloccati, c’è chi piange e si dispera, chi cerca rifugio nella “consolazione della filosofia” – da Severino Boezio a Emanuele Severino, da Fulvio Papi a papa Bergoglio. Il quale però, unico vivo tra cotanto senno, riesce a reagire e dichiara:

    «È diritto di chi è attaccato difendersi, ma sono molto preoccupato per l’assedio totale in cui vivono i palestinesi a Gaza, dove pure ci sono state molte vittime innocenti. Il terrorismo e gli estremismi non aiutano a raggiungere una soluzione al conflitto tra Israeliani e Palestinesi, ma alimentano l’odio, la violenza, la vendetta, e fanno solo soffrire gli uni e gli altri. Il Medio Oriente non ha bisogno di guerra, ma di pace, di una pace costruita sulla giustizia, sul dialogo e sul coraggio della fraternità», così Francesco.

    Ci vuol coraggio, oggi, a parlare di “fraternità”. C’è come un’afasia nell’aria. Tacciono molti “esperti”. Forse non sanno che dire. Forse non desiderano esporsi. Oppure forse valgono qui le ultime parole famose di un celebre Trattato:

 

«di ciò di cui non si può parlare, su ciò si deve tacere.»

 

Così si concludeva, un secolo e un anno fa il Tractatus Logico-Philosophicus, unica opera pubblicata in vita da Ludwig Wittgenstein. Lo salutò come un conseguimento di “straordinaria difficoltà e importanza” Bertrand Russell, perché, disse, è molto, molto arduo svolgere un’argomentazione lunga e complessa senza cadere in evidenti errori o in contraddizioni.

    Di ciò di cui non si può parlare, su ciò si deve tacere. Molti si mostrano taciturni (o conformistici) di fronte alle atrocità compiute dai miliziani di Hamas nei villaggi di Kfar Aza e Be’eri e già condannano Israele per la “bonifica” antiterroristica in preparazione nella “Striscia di Gaza”. Non che Israele possa chiamarsi fuori da ogni responsabilità, per carità, ma non posso non domandarmi come stanno certi miei vecchi compagni di corso, rientrati a Gerusalemme dopo lo studio. E mi chiedo che cosa direbbe oggi Amos Luzzatto, storico presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, che intervistai in tempi lontani.

    Forse richiamerebbe l’attenzione su una certa tendenziale relativizzazione mediatica, praticata da innumerevoli giornali su carta, in rete e in televisione, sia in Italia, sia in Germania, sia in altri paesi europei. Si parla oggi, con roppa facilità, del «più grande massacro di ebrei dai tempi dell’Olocausto». I media lo dicono e lo ripetono. Ma forse sottovalutano un punto: la sanguinosa scorribanda armata di Hamas contro cittadini israeliani inermi, per quanto vigliacca, ributtante e financo improntata soggettivamente a ideologie nazistoidi, non può tuttavia paragonarsi alla Shoah.

    Non lo può, non solo perché la “Soluzione finale della questione ebraica” causò sei milioni di vittime di ascendenza o religione israelita. Non lo può, non solo per causa dei circa ottocento e quaranta lunghissimi giorni di sterminio intercorsi tra la Conferenza di Wannsee e la Capitolazione della Germania nazista: laddove la quantità cambia qui persino la sostanza delle cose.

    Il paragone tra quello “ieri” e questo “oggi” è diffuso, ma a me pare fuori luogo, soprattutto perché nessuna relativizzazione è lecita in un contesto cosi tragico. Né la relativizzazione della Shoah. E nemmeno, beninteso, quella riguardante l’assassinio di massa perpetrato sabato scorso a Gaza contro 1’200 civili. Quest’evento, terribilmente luttuoso e assolutamente ripugnante per la sua crudeltà, non va strumentalizzato in comparazioni di sapore giornalistico.

    

Il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica

in un’immagine ufficiale diffusa dalla Zuma Press

 

Dopodiché la foto sopra – che ritrae una manifestazione del “Corpo delle guardie della rivoluzione islamica” ci aiuta a comprendere che, oggi come nella Seconda guerra mondiale, l’assassinio antiebraico di massa avviene sotto la regia di uno stato, senza cui esso sarebbe in realtà impensabile.

    Ma in questa evidenza si cela l’insidia di una provocazione cinica e sanguinaria. Perché se l’attacco arriva in ultima analisi da una media potenza nazionale, la sicurezza di Gerusalemme non verrà garantita mettendo a ferro e a fuoco la Striscia di Gaza, già nota per altro come una “galera a cielo aperto”.

    E neppure un’estensione del conflitto ad altri paesi della regione configurerebbe un’opzione accettabile sul piano strategico, dato che essa coinvolgerebbe probabilmente due nazioni dotate di armi atomiche, con la conseguenza di innescare il rischio di una guerra termonucleare.

    Beninteso, nessun paese democratico dev’essere lasciato solo. Ma se noi, il genere umano, non siamo ancora stanchi di vivere dobbiamo agire con giudizio, attenendoci a una perimetrazione strettamente difensiva della forza.

    Ma che fare dopo avere subito un sanguinoso atto di guerra? A Gerusalemme, c’è chi crede al “diritto di rappresaglia”. C’è chi ha minacciato di “trasformare Gaza in un’isola deserta”. C’è chi propende per forme più miti di ritorsione, le “sanzioni.

    Il governo di Gerusalemme ha approvato una serie di azioni militari «per garantire che Hamas, alla fine di questa guerra non avrà alcuna capacità militare con cui minacciare o uccidere i civili israeliani», ha dichiarato il tenente colonnello Conricus, portavoce delle Forze di difesa israeliane. E il segretario della NATO Stoltenberg approva: «Israele ha il diritto di difendersi, ci aspettiamo una riposta proporzionata».

    Ma qualora la proporzionalità venga disattesa, come fatalmente accade quando si spara e si bombarda? Qualora la popolazione civile confinata a Gaza subisca gravi lutti e patimenti? Questi “danni collaterali” alimenteranno a loro volta una volontà di vendetta tramite ulteriori azioni di guerra, terroristica o convenzionale. E queste azioni esigeranno per converso le loro reazioni e contro-reazioni, in una fitta prospettiva di rappresaglie in fondo alla quali già s’intravvede un altro pezzetto di conflitto deflagrante.

    Ma escludereste che la sfida subdola che gli Ayatollah lanciano all’Occidente non sia proprio questa istigazione alla escalation? Un’altra guerra, dopo quelle contro Kabul e Baghdad, potrebbe rivelarsi fatale per le nostre democrazie.

    Viviamo in un’epoca senza precedenti, ma quasi tremila anni fa al re della Lidia, Creso, nel vicino e medio oriente, accadde di ascoltare un vaticinio: «Se Creso attraverserà il Fiume Rosso un grande regno cadrà». Con queste parole l’Oracolo di Delfi aveva risposto alla sua domanda circa l’opportunità di muovere guerra contro l’antica Persia.

    Creso decise di partire. Attraversò il Fiume Rosso. Credeva che il “grande regno” votato a crollare sarebbe stato l’impero nemico. Purtroppo per lui, si sbagliava.

 

Creso sconfitto attende la morte sul rogo.

Anfora a figure rosse da Vulci (500-490 a.C.)

       

           

SPIGOLATURE 

 

IL Progresso

mangiato dal “ciclostile”

 

di Renzo Balmelli 

 

CICLOSTILE. Ma quando finirà? Sono di nuovo giorni terribili per l’umanità, mentre assistiamo sgomenti alla feroce ripresa delle ostilità sul fronte della guerra israelo-palestinese. La cronaca degli eventi porta nelle nostre case il racconto di intollerabili atrocità nell’ancestrale conflitto tra le due parti, riacutizzato in questa fase dal terrorismo di Hamas. Ci troviamo così a essere spettatori impotenti di un crudele, ostinato déjà-vu dell’odio che si scarica senza pietà contro le vittime innocenti, bambini e neonati. E dal quale nessuno può chiamarsi fuori. È uno stillicidio che si consuma nella spirale di brutalità, stratificata da anni e anni di incomprensione reciproca, che non conosce la pietà. Per ragioni anagrafiche cambiano gli attori, ma soltanto loro e non lo scenario di fondo. Invariata rimane invece la parte loro assegnata dal copione impazzito della storia che sembra passata in diretta attraverso il ciclostile. Se il paragone, vista la gravità della situazione, non sembrasse irriverente, parrebbe di essere in quel teatro di Londra che da anni ripropone lo stesso lavoro, ma sul quale, terminata la rappresentazione, cala se non altro il rassicurante, salvifico sipario. Qui, in questa splendida terra divisa da rancori vecchi come il mondo e mai condivisa nel segno della reciproca accettazione, nulla di simile accade, perché da tempo immemore non ci sono sipari da calare. Perché ormai il danno è fatto e non si vede come sia possibile ripararlo. A questo punto lo spazio per un attimo di pausa che consenta di sfuggire all’implacabile schizofrenia della guerra per tornare finalmente a respirare liberamente, non esiste più. Qui, da oltre mezzo secolo, dalla guerra dello Yom Kippur fino ai giorni nostri, è stato soltanto un susseguirsi di inaudite violenze intercalato da pochi tentativi di pace che furono però di effimera durata. Tutto ciò continua a influenzare pesantemente gli equilibri non soltanto del Vicino e Medio oriente, ma di tutto il mondo, già alle prese con la via crucis dell’Ucraina e di altri conflitti che per la loro brutalità, la loro prevaricazione dell’uomo sull’uomo, lasciano senza parole.

 

 

GROVIGLIO. È incredibile di quante cose ci possiamo dimenticare, mentre la questione palestinese – come annota Ferruccio de Bortoli sul “Corriere del Ticino” – ritorna di prepotenza nell’agenda della diplomazia internazionale, “ingessata nel suo tragico groviglio di torti e ragioni”. Ci siamo quasi già colpevolmente dimenticati che dopo l’attacco di Hamas e la durissima reazione israeliana, sono i civili a pagare come sempre il prezzo più alto di una crisi senza precedenti. Ci siamo scordati che sono migliaia gli esseri umani catturati nelle strade, presi in ostaggio e portati nei nascondigli dei terroristi, nelle notti da incubo illuminate dalla livida luce dei razzi che squarciano il cielo. Al di là dei comunicati fotocopia – con i quali si auspica di creare le condizioni per un Medio Oriente “pacifico e integrato”, opzione che sembra ormai lontana mille miglia, – ciò che maggiormente inquieta è appunto la sorte della popolazione civile esposta a sofferenze indicibili. Pur riconoscendo le legittime rimostranze del popolo palestinese, al quale si negano cure sanitarie, acqua ed elettricità, e pur considerando le preoccupazioni di Israele per la sua sopravvivenza, nulla può giustificare questi atti di terrore pari a veri e propri crimini di guerra. Nel gelido linguaggio dei quartieri generali le vittime sono soltanto numeri, defraudati della loro integrità, della loro dignità. Sì, numeri come lo score del tiro ai birilli per fare la conta di chi ne ha abbattuti di più. L’escalation del conflitto costituisce in questo senso un nuovo e pericoloso tassello in un crescente e incandescente mosaico di crisi che, se non affrontate con coraggio, portano all’inevitabile fallimento nel tentativo di costruire un mondo migliore nel segno della pace.

 

  

SCINTILLE. Se Putin smentisce di avere iniziato il conflitto in Ucraina, dimentico che il paese è stato invaso il 24 febbraio dalle truppe di Mosca, forse è giunto il momento di porsi qualche domanda per capire dove stiamo andando. L’interrogativo diventa di urgente attualità, mentre nel mondo il clima politico generale si fa di giorno in giorno vieppiù rovente. In Occidente, dall’Europa agli Stati Uniti, sono alle porte appuntamenti elettorali il cui esito, nella peggiore delle ipotesi, può fare tornare indietro bruscamente le lancette della storia. A Washington lo scontro Biden-Trump per la presidenza fa scintille, ed a Bruxelles, nel cuore dell’Ue, la crescita record dell’AfD (“Alternative für Deutschland”) è motivo di gravi preoccupazioni. Di questo passo e tra le incertezze che pesano sull’opinione pubblica, l’estrema destra tedesca potrebbe addirittura arrivare al governo – sia nei Länder, gli Stati federati della Germania, sia nel Bundestag, il parlamento federale tedesco, – con conseguenze facilmente immaginabili per gli assetti delle istituzioni comunitarie. Ci si comincia insomma a rendere seriamente conto che non è mai troppo tardi, e quindi neppure mai troppo presto, per contrastare la deriva che dalla Baviera all’Assia potrebbe un giorno contagiare l’intero continente. Diffusi segnali annunciano fra la gente uno sbalzo di temperatura nel comune sentire, su entrambe le sponde dell’Atlantico, dove fino a poco tempo fa il culto della democrazia di cui parla Ezio Mauro su “Repubblica” era considerato un valore «assoluto e universale. Un valore insostituibile destinato a imporsi ad ogni latitudine dopo avere vinto la sfida del Novecento contro i totalitarismi». Occorre rendersi conto senza indugi del pericolo. Non farlo sarebbe un errore capitale e potrebbe spianare la strada al ritorno del grande gelo.

   

   

L’Avvenire dei lavoratori

 

Visita il BLOG dell’ADL curato da Tiziana Stoto (KOLORATO)

     

 

Da La Rivoluzione Democratica

 

Ancora su Ustica

 

BANANARI SENZA BANANE

 

Riprendiamo le parole di Giuliano Amato. “La versione più credibile è quella della responsabilità dell’Aeronautica francese, la complicità degli americani e di chi partecipò alla guerra aerea nei nostri cieli la sera di quel 27 giugno. Si voleva fare la pelle a Gheddafi, in volo su un Mig della sua aviazione. Il piano prevedeva di simulare un’esercitazione della Nato, con molti aerei in azione, nel corso della quale sarebbe dovuto partire un missile contro il leader libico: l’esercitazione era una messa in scena che avrebbe permesso di spacciare l’attentato come incidente involontario”.

 

di Marco Cianca

 

Ma Gheddafi fu avvertito del pericolo e non salì sul suo aereo. Sicché «il missile sganciato contro il Mig libico finì per colpire il Dc9 dell’Itavia che si inabissò con dentro 81 innocenti. L’ipotesi più accreditata è che quel missile sia stato lanciato da un caccia francese partito da una portaerei al largo della costa meridionale della Corsica o dalla base militare di Solenzara, quella sera molto trafficata. La Francia su questo non ha mai fatto luce».

    Il quotidiano “la Repubblica” ha titolato in prima pagina «Ecco la verità su Ustica. Macron chieda scusa». L’intervista, pubblicata lo scorso 2 settembre, per qualche giorno ha oscurato le altre bagatelle nostrane, dai cinque operai finiti sotto un treno agli sbarchi di Lampedusa, dalla crisi economica al caos climatico. Perfino le nefaste scempiaggini profuse con generosità dall’attuale maggioranza hanno subìto una momentanea sordina, salvo riprendere immediatamente come prima, peggio di prima.

    «Se ha delle prove, le tiri fuori. Altrimenti farebbe meglio a stare zitto», è stata la reazione più diffusa, inclusa quella di Giorgia Meloni. Tanto da indurre lo stesso Amato a convocare una conferenza stampa, per ribadire, circoscrivere, smussare: «Non ho mai detto a Macron di chiedere scusa, ma che sono scemo? Ho chiesto di occuparsi della cosa. (…) Non ho mai detto che stavo dando la verità ma che portavo avanti l’ipotesi ritenuta più credibile tra quelle formulate».

 

    E Amato ha aggiunto: «Ho voluto lanciare una sfida. Chi sa, parli ora. Questo il senso dell’appello rivolto ai testimoni reticenti, gli ultimi sopravvissuti di una generazione che si sta estinguendo”, ha continuato. Ma perché proprio ora? “Alla base – ecco la risposta alla domanda che tutti abbiamo fatto – c’è stato il bisogno di verità che ad una certa età diventa più urgente, con il tempo davanti che si accorcia ogni giorno».

    Insomma, nessuna novità. E così, nel giro di poco, sulla tragedia di 43 anni fa è ricalato il sipario. Il quotidiano “la Repubblica” ha provato ad insistere. A metà settembre, in un’altra intervista, Giuseppe Dioguardi, maresciallo dell’Aeronautica in pensione, rivela l’esistenza di un dossier del Sismi di cui si sono perse le tracce e confessa di aver distrutto lui stesso importanti documenti.

    Poi, il quotidiano denuncia che, stando a fonti del Ministero della Difesa, ci sarebbero ancora sette incartamenti segreti «fermi in attesa del nullaosta dagli enti che li hanno emessi». I quali incartamenti, però, non sarebbero decisivi. Lirio Abbate, in un corsivo, chiede che siano resi pubblici al più presto e ribadisce il dubbio che in quei reconditi archivi “ci possa essere ancora molto, perché lì dentro si è cercato male e malvolentieri”.

    Eccoci di nuovo al punto di partenza, al 27 giugno del 1980. Tranchant Rino Formica, ministro dei Trasporti ai tempi della strage, che ben conosce Amato, del quale è stato compagno di partito: «La sua uscita non aggiunge nulla sul piano storico. Non introduce una novità documentale. Cossiga mi anticipò le sue ipotesi sul missile in una conversazione privata, come ho raccontato all’autorità giudiziaria. Perché si apre la questione delle responsabilità dirette della Francia, rivolgendosi direttamente e proprio ora al presidente Macron? Giuliano Amato in questi quarant’anni ha avuto molte occasioni per rivolgersi alle autorità francesi e lo fa oggi, chiedendo un atto di confessione pubblica di responsabilità che ricorda il messaggio di Paolo VI ai sequestratori di Moro».

    Gli interrogativi restano, inquietanti. Perché l’ex Presidente del consiglio ha deciso di fare questa improvvisa uscita? Messaggio criptico a qualcuno? Vendetta? Avvertimento? Coazione a rimettersi sempre nel centro della scena? Mai sopite ambizioni di salita al Colle? Di certo, sollevare sospetti e accuse nei confronti della Francia non fa che complicare ulteriormente i già difficili rapporti con i cugini d’oltralpe. E anche l’Alleanza atlantica, mentre la guerra in Ucraina resta una ferita aperta, finisce sul banco dei grandi accusati. «Ci guadagna la Nato ad apparire ancora più disumana nascondendo una tragedia del genere?» – frase bella pesante, non c’è che dire.

    Tutti i retroscena possibili e immaginabili sembrano a questo punto autorizzati.

    In controtendenza con le critiche e le polemiche, Daria Bonfietti, della Associazione dei parenti delle vittime (nella tragedia perse il fratello), ha voluto invece ringraziare Amato per il suo intervento giudicandolo “una iniziativa molto importante nel percorso per la verità”. In una lettera, sempre al quotidiano “la Repubblica”, ha ricordato il contributo già dato dal dottor Sottile: «E’ lui il sottosegretario che nell’86 mette a disposizione della magistratura i fondi per il recupero del Dc9 dal fondo del Tirreno. È il sottosegretario alla Presidenza del consiglio che comincia a denunciare che anche a lui sono state fornite liste di nomi non corrette rispetto alla presenza dei militari ai radar. Poi è capo di quel governo, Salvo Andò ministro della Difesa, inizi anni ‘90, che si costituisce parte civile contro i militari imputati dal giudice Priore. Anche questo un gesto di grande valore simbolico ma soprattutto pratico».

    La conclusione diventa un appello: «Non fermiamoci alle polemiche, ma troviamo la forza per chiedere ancora, in Italia e nei paesi amici e alleati, la verità dovuta alle povere vittime ma anche rendiamocene conto, per la dignità di questo nostro Paese».

    Il timore, però, è che anche il momentaneo sprazzo di un mese fa venga inghiottito da una memoria collettiva piena di punti interrogativi. «Senza niente», ha chiosato, con citazione poetica, Andrea Ermano su “L’Avvenire dei lavoratori”.

    Andrea Purgatori, il giornalista che delle indagini su Ustica aveva fatto una ragione di vita, non c’è più e non può aiutarci a capire. Ma dalla strage di Portella della Ginestra alla bomba di Bologna, passando per piazza Fontana, i buchi neri della nostra storia continuano ad inghiottire la credibilità delle istituzioni. E la destra al governo, questa brutta destra, fa paura.

    Formica si dice preoccupato: «C’è qualcosa di torbido nell’aria. Per aprire una nuova fase costituente bisogna azzerare la Repubblica, annacquare ogni differenza in una responsabilità collettiva, in misteri che coprono altri misteri».

    Siamo un paese di “bananari”, ma senza banane. Non abbiamo materie prime che possano far gola alle grandi multinazionali, ma l’anima, quella sì, siamo sempre pronti a metterla nelle mani del Mefistofele di turno.

    “Repubblica delle banane” è un’espressione coniata nel 1904 dallo scrittore statunitense O. Henry, pseudonimo di William Sydney Porter, il quale si ispirò all’Honduras. In fin dei conti, siamo più simili al Paese centroamericano che alle grandi democrazie. Facciamocene una ragione…

 

https://www.rivoluzionedemocratica.it/

      

      

economia

 

Usa: debito, interessi

e titoli pubblici

 

Quando all’inizio di agosto l’agenzia di rating Fitch ha declassato gli Usa da AAA a AA+ il governo americano ha subito risposto duramente. Janet Yellen ha dichiarato il suo totale disaccordo e definito “arbitraria” la decisione. Nel 2011, quando Standard & Poor’s fece lo stesso declassamento, Obama reagì ancora più violentemente. Lo ricordino i governi europei quando le agenzie americane pontificheranno sull’andamento delle loro economie.

 

di Mario Lettieri, già Sottosegretario all’economia (governo Prodi)

e Paolo Raimondi, Economista

 

La ragione data da Fitch è troppo generica e non va al nocciolo del problema. Essa afferma che negli ultimi 20 anni c’è stato un continuo deterioramento negli standard di governance dell’economia anche rispetto alle questioni fiscali e debitorie”.

    In verità, sarebbe stato opportuno entrare nel merito. Il debito pubblico americano totale (federale e regionale) è oggi di oltre 32.000 miliardi di dollari, era di circa10.000 miliardi quando esplose la grande crisi finanziaria del 2008. Si stima che entro la fine del decennio raggiungerà i 50.000 miliardi.

    Inoltre, da molto tempo ogni anno i governi Usa non riescono a mantenere le spese entro i limiti di bilancio e, ritualmente, devono sfondare il tetto del debito per evitare la bancarotta dello Stato! Questa volta un accordo bipartisan ha deciso di sospendere il limite del debito federale fino a gennaio 2025, cioè per opportunità politica fino all’insediamento del nuovo presidente dopo le elezioni di novembre 2024. A seguito dello “sfondamento” del debito, si stima che quest’anno il deficit di bilancio salirà al 6,3% del pil. L’anno scorso era stato del 3,7%.

    Il declassamento del rating inevitabilmente farà crescere il livello di interessi da pagare per le obbligazioni pubbliche, per i noti Treasury bond. Questo si andrà ad aggiungere all’aumento prodotto dagli alti tassi d’interesse imposti dalla Federal Reserve e giustificati come mossa indispensabile per contenere l’inflazione. A ciò occorre aggiungere che la Fed da mesi sta cercando di “smontare” il quantitative easing, evitando anche di comprare nuovi titoli di Stato o di rinnovare parte di quelli in scadenza.

 

L’Eccles Building che funge da quartier generale

della Federal Reserve statunitense

 

Il risultato è che i titoli pubblici sono in una fase di grande fibrillazione. Il che non rivela soltanto un problema di gestione del debito pubblico. Come abbiamo visto nelle settimane passate, l’aumento del tasso d’interesse sui bond ha avuto pericolosissime ripercussioni sulla tenuta di alcune banche regionali, anche con dei veri e propri fallimenti. Si noti che recentemente Moody’s ha declassato alcune banche regionali.

    Infatti, il sistema bancario americano è pieno di titoli pubblici che, rispetto ai tassi di oggi, sono in perdita. Cercare di rimpiazzarli non è un’operazione lineare. Oltre a perdite da registrare nella foga delle vendite, l’effetto generale sui loro valori di mercato potrebbe essere molto destabilizzante per la loro tenuta.

    Intanto, è opportuno registrare che nel periodo ottobre 2022 – giugno 2023, a seguito degli aumenti dei tassi voluto dalla Fed il pagamento per gli interessi è stato di 652 miliardi di dollari, addirittura superiore alle spese per la Difesa. L’ammontare è maggiore del 25% rispetto alle spese per interessi dello stesso periodo dell’anno precedente.  Il Congressional Budget Office (Cbo) stima in 745 miliardi di dollari gli interessi da pagare nel 2024 e a oltre 10.000 miliardi nel decennio successivo.    

    Il problema sta anche nel fatto che il debito pubblico americano è “circondato” da innumerevoli bolle debitorie e speculative. Il declassamento, per esempio, avrà forti riverberi anche sui tassi applicati alle ipoteche e ai mutui che i cittadini devono pagare per l’acquisto delle proprie abitazioni. La somma del debito per le ipoteche residenziali e per gli edifici commerciali è di circa 18.000 miliardi di dollari. Un altro effetto negativo si vedrà sui debiti accesi per finanziare il percorso educativo, il cosiddetto student debt. Detta bolla è oggi pari a oltre 1.700 miliardi di dollari. Il pagamento degli interessi e delle quote di questi debiti era stato sospeso durante il periodo del Covid, ma, per decisione del governo, ripartirà da settembre.

    Si teme, perciò, che nel tentativo di contenere i debiti pubblici e i deficit di bilancio a farne le spese possano essere i servizi pubblici, a cominciare dalla sanità e dalla scuola. Una ricetta, purtroppo, ben conosciuta anche in Italia.

    I gravissimi problemi finanziari di Evergrande, il colosso cinese delle costruzioni e della finanza privata, oltre a creare seri grattacapi a Pechino, rischia di impattare anche sull’incerto andamento finanziario/debitorio negli Usa e altrove.

           

       

da >>> TERZO GIORNALE *)

https://www.terzogiornale.it/

 

Salario minimo, la Cassazione

bastona gli ultraliberisti

 

Il Cnel dell’ex ministro berlusconiano Brunetta, come previsto, è contrario

al provvedimento. Ma uno spiraglio è stato aperto dalla Suprema Corte

 

di Paolo Barbieri

 

“Oste, com’è il vino?”. “Ottimo!”. Chissà se la presidente del Consiglio aveva in mente questo modo di dire, quando ha proposto di rivolgersi al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) per una proposta sul tema del salario minimo. “È uno specchietto per le allodole”, ha detto una volta Giorgia Meloni a proposito dell’ipotesi di introdurre anche in Italia il salario minimo legale, strumento di largo uso in Europa, oggetto di una recente direttiva della     quale “terzogiornale” si è occupato più volte in passato (per esempio qui e qui).

    Nell’agosto scorso, in occasione dell’incontro a palazzo Chigi con la quasi totalità delle minoranze parlamentari (Pd, 5 Stelle, Azione e Alleanza verdi-sinistra), buttare la palla nel campo del Cnel le aveva consentito di congelare l’offensiva politica e mediatica delle opposizioni, per una volta riunite; ma anche di rivolgersi a un “oste” fidato come lo storico alleato e collega ministro nel governo Berlusconi IV, Renato Brunetta. Il quale, oggi presidente del Cnel, è notoriamente tanto critico nei confronti della misura quanto ostile alle forze politiche che la propongono. E non è un segreto nemmeno che fra gli attori sociali, i rappresentanti imprenditoriali e sindacali che siedono nel Consiglio di via Lubin, le resistenze contro il salario minimo siano ancora molto diffuse: di fatto, solo la Cgil ha votato contro il documento (la Uil si è astenuta). Ma, nel gioco a rimpiattino fra istituzioni “amiche”, si è inserita di recente anche la Corte di Cassazione, con una sentenza che richiama i giudici del lavoro alla necessità di tenere conto del dettato dell’articolo 36 della Costituzione, che recita: “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge”.

 

Il “vino dell’oste” non delude il governo – A sostegno della proposta le opposizioni interessate (con la consueta dissociazione di Italia viva) hanno raccolto finora – dicono – ben più di mezzo milione di firme ai banchetti. Ma la botte del vino spillato dal Cnel e dal suo oste non ha tradito le attese di palazzo Chigi. Nel suo documento analitico, “Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia” (la seconda parte, quella di “proposta”, è attesa a giorni), l’apposita commissione incaricata della consulenza al governo ha sostanzialmente bocciato l’idea. L’informazione più sensibile nei confronti dei sentimenti degli imprenditori ha adeguatamente celebrato l’evento: un esempio per tutti lo fornisce un titolo della “Stampa” (gruppo Gedi): “Lavoro, addio al salario minimo. Brunetta: ‘Concentrarsi sui contratti collettivi’”.

    Il cuore del ragionamento del Cnel si rifà alla direttiva europea in materia, che risale al 19 ottobre 2022, e dev’essere recepita nel diritto nazionale entro il 15 novembre 2024. Benché lo strumento sia adottato da ben ventidue su ventisette Stati membri dell’Unione europea, il Cnel scrive: “Come noto la direttiva europea non impone agli Stati membri alcun obbligo di fissare per legge il salario minimo adeguato (…) e neppure di stabilire un meccanismo vincolante per l’efficacia generalizzata dei contratti collettivi (…). La direttiva è al contrario estremamente chiara nel segnalare, rispetto all’obiettivo di promuovere un sostanziale ‘miglioramento dell’accesso effettivo dei lavoratori al diritto alla tutela garantita dal salario minimo’ (art. 1), una netta preferenza di fondo per la soluzione contrattuale rispetto a quella legislativa”.

    Forte anche l’accento posto dal Cnel sul “collegamento tra condizioni di lavoro, salari e produttività che è niente altro che l’essenza più profonda della funzione della contrattazione collettiva”. Se davvero persistono salari bassi – è la convinzione espressa nel documento del Cnel – è dovuto ai cosiddetti contratti “pirata” (stipulati da organizzazioni sindacali minori, quando non proprio fittizie, al di sotto dei livelli indicati nei contratti stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi).

 

Il lavoro povero esiste, eccome – Ignorare il tema del drammatico e trentennale arretramento dei salari italiani, segnalato dalle statistiche europee elaborate dall’Ocse, però, serve di fatto a occultare la crescente realtà del lavoro povero in Italia. Una “sparizione” oggetto di durissime critiche anche a proposito del Rapporto annuale dell’Inps, che, come ha spiegato su “Repubblica” Pasquale Tridico, l’ex presidente dell’Istituto silurato dal governo di destra-centro, lo limita addirittura a ventimila persone (lo 0,2% dei lavoratori regolarmente contrattualizzati) o poco meno di novecentomila, se si contano anche i rapporti intermittenti e precari. Mentre la commissione indipendente del ministero del Lavoro, guidata dall’economista Ocse Andrea Garnero, contava circa cinque milioni di lavoratori poveri su base annuale. Tridico punta il dito in particolare sui settori dell’agricoltura, del lavoro domestico (questi esclusi, peraltro, dalle statistiche citate dal Cnel), del turismo, della ristorazione, della logistica, maggiormente funestati tanto dalla precarietà quanto dai salari bassi.

 

Il salario minimo e l’impatto dell’inflazione – Come sempre, conviene guardare al di là degli angusti confini nazionali del dibattito politico e del mondo dell’informazione, per avere qualche dato in più. Due argomenti molto in voga, fra i nemici del salario minimo legale, sono i possibili effetti inflattivi dei rialzi delle paghe minime e il potenziale impatto negativo sull’occupazione delle categorie interessate: le imprese sarebbero naturalmente spinte a licenziare alla ricerca di altre forme meno costose di impiego della manodopera. Riassumendo gli esiti di una ricerca dell’Ocse in un recente articolo sul “Financial Times”, l’editorialista Sarah O’Connor sottolinea che “in media nei paesi Ocse, i salari minimi legali nominali sono aumentati del 29% tra dicembre 2020 e maggio 2023, mentre i prezzi sono aumentati di circa il 25%. In altre parole, i salari minimi si sono rivelati ‘uno strumento politico utile per proteggere i lavoratori più vulnerabili dall’aumento dei prezzi’, hanno concluso i ricercatori. Né hanno trovato molti motivi per preoccuparsi delle spirali salari-prezzi. I loro calcoli suggeriscono che un aumento dell’1% del salario minimo equivale solo allo 0,09% negli Stati Uniti e allo 0,23% in Francia alla crescita salariale aggregata. I salari minimi sembrano quindi aver superato la prova dell’elevata inflazione”. (continua sul sito)

 

*) Terzo Giornale – La Fondazione per la critica sociale e un gruppo di amici giornalisti hanno aperto questo sito con aggiornamenti quotidiani (dal lunedì al venerdì) per fornire non un “primo” giornale su cui leggere le notizie, non un “secondo”, come si usa definire un organo di commenti e approfondimenti, ma un giornale “terzo” che intende offrire un orientamento improntato a una rigorosa selezione dei temi e degli argomenti, già “tagliata” in partenza nel senso di un socialismo ecologista. >>> vai al sito

       

    

L’Avvenire dei lavoratori – Voci su Wikipedia :

(ADL in italiano) https://it.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_lavoratori

(ADL in inglese) https://en.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_Lavoratori

(ADL in spagnolo) https://es.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_Lavoratori

(Coopi in italiano) http://it.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo

(Coopi in inglese) http://en.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo

(Coopi in tedesco) http://de.wikipedia.org/wiki/Cooperativa_italiana

 

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LAVORO E DIRITTI

a cura di www.collettiva.it

 

WELFARE – Il Servizio

sanitario è al capolinea

 

Presentato in Senato il VI Rapporto Gimbe sullo Ssn. Compromesso il diritto alla tutela della salute. Servono investimenti e un cambio di modello organizzativo

 

di Roberta Lisi

 

A nemmeno una settimana di distanza, dopo l’analisi e il decalogo dell’Area Stato sociale e diritti della Cgil, arriva il 6° Rapporto sul Servizio sanitario nazionale presentato dalla Fondazione Gimbe in Senato. E i due documenti sembrano “parlarsi” e confermarsi a vicenda. Il quadro che emerge è davvero sconcertante e terribile.

    Le risorse – Servono oltre 48,8 miliardi all’Italia per raggiungere la spesa pro capite per la sanità degli altri Paesi europei. Complessivamente, rispetto alla media dei Paesi europei, nel periodo 2010-2022 la spesa sanitaria pubblica italiana è stata inferiore di 345 miliardi di euro. E, non ci si crederà, il definanziamento della spesa sanitaria si è sorprendentemente ampliato nel triennio 2020-2022 durante l’emergenza pandemica. Nonostante, in quei due anni, prima il governo Conte e poi quello Draghi abbiano comunque aumentato il finanziamento del Fsn rispetto agli anni precedenti.

    Una situazione drammatica – “La situazione è drammatica, insieme alla Confederazione lo denunciamo e contrastiamo da tempo”. Lo afferma Michele Vannini, segretario nazionale Fp Cgil, che aggiunge: “Il progressivo definanziamento ha prodotto una situazione di crisi che si riversa sulla vita delle cittadine e dei cittadini, costretti a combattere con liste di attesa che hanno origine nella drammatica carenza di personale, con i professionisti rimasti che faticano ogni giorno h24 in un contesto frustrante, demotivante e troppo spesso a rischio di aggressioni”.

    “Per noi – conclude – ‘la via maestra’ è investire con un piano pluriennale sul rilancio del servizio socio-sanitario nazionale universale, solidaristico e, appunto, nazionale, sottratto cioè ai guasti prodotti anche da un eccesso di regionalismo, altro che autonomia differenziata. Bisogna cambiare strada subito, con un piano straordinario di assunzioni e alzando adeguatamente le retribuzioni, invertendo, quindi, l’attuale impostazione che il governo pare intenzionato a dare alla prossima legge di bilancio”.

    Il presente e il futuro prossimo – Chi siede oggi a Palazzo Chigi, invece, proprio nelle ultime ore ha dichiarato che la qualità della sanità non dipende solo dai finanziamenti. Vero, ma la saggezza popolare indica che difficilmente è possibile fare “le nozze con i fichi secchi”, ed è bene tenere a mente che se è vero che nella legge di Bilancio del 2023 si è incrementato il Fsn di 2 miliardi e 150 milioni, ben 1 miliardo e 400 se ne è andato per pagare l’aumento del costo dell’energia. Le Regioni aspettano ancora di ricevere i 2 miliardi di risorse proprie impegnate per far fronte al Covid e l’aumento di stanziamento per l’anno in corso non ha coperto nemmeno l’inflazione. Non solo, per i prossimi anni la previsione è ancora più fosca. Si legge dal Rapporto Gimbe: “Dal punto di vista previsionale, nella Nota di Aggiornamento del Def 2023, approvata lo scorso 27 settembre, il rapporto spesa sanitaria/Pil precipita dal 6,6% del 2023 al 6,2% nel 2024 e nel 2025, e poi ancora al 6,1% nel 2026”.

    Manca personale – “Le fonti disponibili – spiega il presidente di Gimbe Nino Cartabellotta – non permettono di analizzare in maniera univoca, sistematica e aggiornata la reale ‘forza lavoro’ del Ssn impegnata nell’erogazione dei Lea. Inoltre, i dati relativi al 2021 verosimilmente sottostimano la carenza di personale, in conseguenza di licenziamenti volontari e pensionamenti anticipati negli anni 2022-2023. Ancora, le differenze regionali sono molto rilevanti, in particolare per il personale infermieristico, maggiormente sacrificato nelle Regioni in Piano di rientro. Infine, i benchmark internazionali relativi a medici e infermieri collocano il nostro Paese poco sopra la media Ocse per i medici e molto al di sotto per il personale infermieristico, restituendo di conseguenza un rapporto infermieri/medici tra i più bassi d’Europa”.

    21 servizi sanitari regionali – Questa è l’amara verità raccontata dai numeri: non esiste più un servizio sanitario nazionale ma 21 servizi regionali, molto differenziati tra loro non solo per capacità di erogazione delle prestazioni e dei Lea, ma anche dal punto di vista di modello organizzativo. E a farne le spese sono utenti e personale. Dice ancora Cartabellotta: “Stiamo inesorabilmente scivolando da un Servizio sanitario nazionale fondato sulla tutela di un diritto costituzionale a 21 sistemi sanitari regionali regolati dalle leggi del libero mercato. Con una frattura strutturale Nord-Sud che sta per essere normativamente legittimata dall’autonomia differenziata”.

    Occorre intervenire – Il quadro è chiaro, il Rapporto della Fondazione Gimbe conferma le preoccupazioni e le valutazioni espresse dalla Cgil in occasione della presentazione della Nadef da parte del governo. E la Confederazione chiede 5 miliardi in più per prossimi anni al Fondo sanitario nazionale, un piano straordinario di assunzioni per tutte le professioni sanitarie investendo sul personale, il rilancio della rete ospedaliera, ridurre le liste di attesa. Per farlo occorre costruire la sanità di territorio, riformare la medicina generale, potenziare l’assistenza domiciliare, e i servizi di salute mentale e i dipartimenti per le dipendenze.

    Cartabellotta avvisa: “Il preoccupante ‘stato di salute’ impone una profonda riflessione politica: il tempo della manutenzione ordinaria per il Snn è ormai scaduto, visto che ne ha sgretolato i princìpi fondanti e mina il diritto costituzionale alla tutela della Salute. È giunto ora il tempo delle scelte: o si avvia una stagione di coraggiose riforme e investimenti in grado di restituire al Ssn la sua missione originale, oppure si ammetta apertamente che il nostro Paese non può più permettersi quel modello di Ssn”.

      

            

Da Avanti! online

www.avantionline.it/

 

Maraio: “SI FERMI IL MASSACRO

DEI CIVILI. E VALE PER TUTTI”

 

Ha le idee chiare Enzo Maraio sulla politica estera. La ‘scelta occidentale’ mai in discussione, ma in sintonia con una storia significativa: una posizione ragionata, strutturata, mai scontata.

 

di Gaetano Amatruda

 

Segretario Maraio, i venti di guerra soffiano sempre più forti. In Israele la situazione più drammatica degli ultimi anni. In queste ore sui social ha auspicato una azione diplomatica più forte

    Si, serve cambiare marcia. Prima di ogni riflessione fammi sottolineare alcuni aspetti. L’attacco di Hamas è deplorevole, è azione terroristica e scellerata. Come ha sottolineato, in queste ore, Alon Bar, Ambasciatore d’Israele in Italia, Hamas è, innanzitutto, nemica della causa palestinese. Sparare sui civili è barbarie. La condanna è ferma e convinta.

    Dalla parte, dunque, di Israele…

    Israele ha il diritto di difendersi. Ma una strategia si costruisce con l’azione diplomatica, riconoscendo le posizioni in campo. L’idea dei socialisti italiani, da sempre, è quella di due popoli due Stati. E’la sintesi della nostra posizione, deve essere il punto di partenza sul quale costruire soluzioni.

    In queste ore l’azione diplomatica ha lasciato spazio all’intervento militare. Crede qualcosa possa cambiare?

    Era inevitabile una reazione di Israele. Perché Tel Aviv doveva dare un segnale, perché alle armi la prima risposta è quella delle armi. E’ la storia del Mondo che va cosi. Ma non basta ed è evidente. Alla violenza non si può rispondere, per quanto legittime le ragioni d’Israele, con altra violenza.

    È quello che ha detto in un post che ha fatto molto discutere la rete

    La mia, oggi sui social, è stata una riflessione da padre. Sì, soprattutto da genitore di un piccolo di quattro anni. Le immagini che giungono da quella terra martoriata mi sconvolgono e mi spingono, emotivamente ma conservando sempre il filo di un ragionamento ‘antico’, su terreno diverso.

 

Enzo Maraio | Facebook

Enzo Maraio

 

Forse impopolare nella stagione del politicamente corretto, non allineato alle strategie di politica estera del Paese e della opinione pubblica.

    Perché impopolare?

    Mi spiego. Bisogna fermare la violenza, il massacro dei civili. In queste ore tutti schierati con Israele, lo abbiamo fatto anche noi come Psi. Ma proprio perché consideriamo quella terra faro di democrazia chiediamo un atteggiamento diverso. La risposta ad Hamas, terroristi che schifo per essere chiaro e come ho scritto sui social, non può essere quella di sganciare bombe sui civili, non può essere quella di lasciare ospedali senza luce ed acqua. Non può essere quella di colpire le fasce più deboli. Non può essere, e lo dico da padre, ripeto, quella di sganciare bombe sulle teste dei bambini. Ci penso quando vedo le immagini in Tv, quando la sera rientro e vedo il mio piccolo giocare in casa.

    Provo forte il senso di impotenza e ingiustizia. Non può continuare così.

    E cosa dovrebbe capitare?

    La comunità internazionale promuova una azione diplomatica più forte, e si può fare, chieda ad Israele di fermarsi. Si, di fermarsi. Non costruiremo democrazia diventando barbari come i terroristi, non lo può fare un grande Paese come Israele che ha il dovere, con il sostegno della comunità internazionale, di esplorare altre strade.

       

                

L’Avvenire dei lavoratori – Voci su Wikipedia :

(ADL in italiano) https://it.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_lavoratori

(ADL in inglese) https://en.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_Lavoratori

(ADL in spagnolo) https://es.wikipedia.org/wiki/L’Avvenire_dei_Lavoratori

(Coopi in italiano) http://it.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo

(Coopi in inglese) http://en.wikipedia.org/wiki/Ristorante_Cooperativo

(Coopi in tedesco) http://de.wikipedia.org/wiki/Cooperativa_italiana

 

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L’Avvenire dei lavoratori

EDITRICE SOCIALISTA FONDATA NEL 1897

 

L’Avvenire dei lavoratori è parte della Società Cooperativa Italiana Zurigo, storico istituto che opera in emigra­zione senza fini di lucro e che nel triennio 1941-1944 fu sede del “Centro estero socialista”. Fondato nel 1897 dalla federazione estera del Partito Socialista Italiano e dall’Unione Sindacale Svizzera come organo di stampa per le nascenti organizzazioni operaie all’estero, L’ADL ha preso parte attiva al movimento pacifista durante la Prima guerra mon­diale; durante il ventennio fascista ha ospitato in co-edizione l’Avanti! garantendo la stampa e la distribuzione dei materiali elaborati dal Centro estero socialista in opposizione alla dittatura e a sostegno della Resistenza. Nel secondo Dopoguerra L’ADL ha iniziato una nuova, lunga battaglia per l’integrazione dei mi­gran­ti, contro la xenofobia e per la dignità della persona umana. Dal 1996, in controtendenza rispetto all’eclissi della sinistra italiana, diamo il nostro contributo alla salvaguardia di un patrimonio ideale che appar­tiene a tutti.

 

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